Daniele Trabucco
L’azione esterna del Governo Meloni, sin dal suo insediamento nell’ottobre 2022, si è proposta come tentativo di ricostruzione di una soggettività italiana nel mondo, all’interno di un contesto internazionale frantumato e sottoposto a rapide metamorfosi geopolitiche. Eppure, al di là delle dichiarazioni e delle posture sceniche, ciò che si è manifestato è l’assenza strutturale di una filosofia della politica estera, ossia l’assenza di una visione ordinatrice capace di legare mezzi e fini, contingenza e destino, interesse nazionale e ordine delle genti. L’Italia melonianamente intesa non ha agito da centro deliberante, ma da periferia reattiva; non ha parlato, ha ripetuto; non ha pensato, ha obbedito, ponendosi in una linea di continuità con i Governi precedenti (Draghi, Conte II etc.).

La sua politica estera si è, in questo modo, configurata come un corpo senza spirito, una prassi sganciata da ogni metafisica del potere e da ogni etica della responsabilità. Non un agire consapevole del limite, ma un attivismo cieco, privo di fondamento, immerso nella superficie dell’immediato. La pretesa di un ritorno dell’Italia sulla scena internazionale ha trovato la sua espressione più fragile nella costruzione propagandistica del c.d. “Piano Mattei per l’Africa”, presentato come il paradigma di una nuova cooperazione, mentre in realtà ne ha segnato la caricatura. Privato di una struttura multilaterale, di una visione integrale dell’umano, il Piano si è rivelato uno strumento di esternalizzazione della frontiera, concepito non per incontrare l’altro, ma per contenerlo.
Non vi è stata nessuna vocazione educativa, nessuna economia relazionale, nessuna apertura reale all’interlocuzione con la dignità dei popoli africani. Al contrario, l’Africa è stata nuovamente pensata come spazio da ordinare a partire da interessi di potenza, seppur declinati con tono paternalistico, e non come luogo con cui dialogare e da cui lasciarsi interrogare sua pure nel rispetto della propria identità. La logica del “controllo” ha prevalso su quella della “comunione” e con essa è svanita la possibilità stessa di costruire legami stabili, fondati sulla reciprocità e non sulla convenienza. Un “Piano Mattei” degno di questo nome avrebbe dovuto presupporre una concezione forte di persona, comunità, sviluppo e destino condiviso. Invece, è stato solo il simulacro di una visione. Questo stesso sradicamento teoretico si è manifestato, con ancora più drammatica evidenza, dinanzi all’esplosione del conflitto aperto tra Israele e Repubblica islamica dell’Iran.
Di fronte a un evento che ha implicato una rottura dell’ordine internazionale, potenzialmente gravida di conseguenze planetarie, l’Italia non ha avuto né parola, né posizione. La sua reazione si è limitata all’adesione meccanica alla postura statunitense, senza alcuna capacità di distinguere, di discernere, di problematizzare. Eppure, in momenti di crisi epocale, ciò che si chiede a uno Stato che voglia dirsi sovrano non è l’efficienza tecnica, ma l’intelligenza del reale, il coraggio del logos, la forza del giudizio. L’Italia ha abdicato alla propria funzione storica di ponte tra civiltà, si è eclissata proprio laddove avrebbe potuto riattivare la sua più profonda vocazione: essere luogo di mediazione, spazio di parola, laboratorio di pace. L’azione politica, quando vuole essere grande, deve essere anche simbolica: deve cioè saper evocare un’immagine del mondo che orienti le azioni e conferisca significato alle scelte. Il Governo Meloni ha mostrato, invece, l’incapacità di concepire il simbolo ed è rimasto prigioniero del calcolo.
Non c’è alcuna “astuzia” da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, ma solo assenza di una filosofia dell’essere-nel-mondo. La politica estera, per essere tale, non può ridursi alla gestione dell’alleanza atlantica, né alla ripetizione di coordinate geopolitiche fissate da altri. Essa esige una visione del tempo, una concezione dell’uomo e della storia, una metafisica dell’equilibrio. Per Hobbes stesso, pensatore della modernità, la sovranità è l’arte di evitare la guerra universale; per Vico, la diplomazia è la narrazione simbolica della civilizzazione; per Solov’ëv, la pace non è assenza di conflitto, bensì ordine giusto. Nulla di tutto questo è stato presente nel pensiero politico del Governo attuale. Il concetto stesso di “interesse nazionale” è stato svuotato, ridotto a slogan, deformato fino a diventare l’ombra del potere altrui. L’Italia ha così smarrito il proprio “genius loci”, il proprio compito storico, la propria responsabilità nel concerto delle Nazioni. L’Italia, invece di agire come forza di mediazione, ha assunto una postura che oscilla tra subalternità funzionale e presunzione impotente.
Ha smarrito la sua identità liminare, cioè quella capacità di stare nella soglia tra i mondi. In tale scenario, il fallimento della politica estera italiana non è soltanto empirico. È ontologico. Riguarda la concezione stessa della politica e del suo fondamento. L’Italia non ha più pensato se stessa come “forma” nel mondo, ma come funzione di equilibri altrui. L’azione esterna è divenuta priva di densità, di misura, di “phronesis”. Quando la politica rinuncia a pensarsi in termini di ordine e giustizia, essa decade in tecnica della sopravvivenza e di mantenimento del potere. La tecnica può produrre decisioni, ma non senso. E uno Stato che agisce senza senso, cessa di essere Stato per ridursi a semplice organizzazione del potere. Ciò che si sarebbe potuto fare, e si può ancora fare, è un atto fondativo: ricominciare a pensare la politica estera come pensiero incarnato, come filosofia dell’agire nella storia.
L’Italia avrebbe potuto proporre un’autentica politica mediterranea, fondata non sulla deterrenza, quanto sulla responsabilità; non sul sospetto, ma sull’ascolto; non sull’esclusione, ma sull’alleanza. Avrebbe potuto rilanciare il Piano Mattei come piattaforma multilaterale di cooperazione giusta, inserita in una visione dell’Africa come soggetto e non come oggetto. Avrebbe potuto riattivare la propria vocazione di interlocutore tra il Nord e il Sud del mondo, tra Est e Ovest, offrendo nella crisi mediorientale una parola terza, scomoda, ma necessaria. Non si tratta di neutralità, ma di trascendenza: trascendere i conflitti immediati per pensare un ordine più alto, non meno politico ma più giusto. Il futuro della politica estera italiana dipende, ora più che mai, dalla sua capacità di ritrovare un’anima. Senza anima non vi è politica, vi è solo amministrazione del declino.
E in un mondo che implode, solo chi possiede una parola profonda può ancora generare speranza.

