da historicus

Viviamo immersi in apparati amministrativi e strutture politiche che spesso sembrano muoversi con
lentezza esasperante, prendere decisioni opache, promuovere figure mediocri e resistere a ogni
tentativo di riforma. È un’esperienza condivisa: chi ha avuto a che fare con una burocrazia statale,
chi osserva la selezione della classe dirigente, chi lavora in grandi organizzazioni pubbliche o
private, ha percepito il peso di ingranaggi che sembrano funzionare al contrario. Eppure, sotto
questa apparente disfunzione, agiscono logiche razionali. Non razionali nel senso dell’efficienza o
dell’interesse pubblico, ma nel senso di una coerenza interna: la razionalità del potere che si
protegge, si consolida, si riproduce, si espande.
Per comprendere questi meccanismi, vale la pena accostare tra loro quattro teorie – nate in contesti
diversi e in epoche differenti – che si parlano sorprendentemente bene: il realismo politico di
Niccolò Machiavelli, la legge di Parkinson sulla crescita della burocrazia, il principio di Peter
sull’incompetenza organizzativa, e il fenomeno della selezione negativa nella politica. Insieme,
questi strumenti analitici ci offrono una chiave per decifrare la logica interna di sistemi che, pur
sembrando irrazionali o corrotti, seguono una coerenza profonda. Una coerenza che però spesso
lavora contro l’interesse collettivo.

  1. Machiavelli: la virtù del potere è la capacità di conservarlo
    Nel Principe (1513), Machiavelli compie un gesto radicale: separa la politica dalla morale. Non che
    la morale non abbia valore, ma chi governa deve agire nel mondo com’è, non come dovrebbe
    essere. Il potere non si conserva con la bontà, ma con la virtù – intesa come abilità, prontezza,
    capacità di agire in modo efficace – e la capacità di usare la fortuna, cioè le circostanze
    imprevedibili, a proprio vantaggio.
    Machiavelli non teorizza il cinismo, ma lo analizza come dato di fatto. Un potere troppo idealista
    cade. Un leader deve saper simulare e dissimulare, punire quando serve, aggirare ostacoli morali per
    salvaguardare lo Stato. Questa logica, apparentemente brutale, ha una sua coerenza ferrea: chi non
    capisce il potere rischia di perderlo. Non sorprende, allora, che anche le strutture non politiche –
    come le burocrazie – abbiano fatto propria questa logica machiavellica. Esse agiscono come
    “principati istituzionali”: costruiscono alleanze interne, difendono la propria autonomia,
    neutralizzano le riforme, e raramente mostrano il proprio volto reale.
  2. La legge di Parkinson: la burocrazia cresce per vivere, non per
    servire
    Nel 1955, lo storico e funzionario britannico Cyril Northcote Parkinson pubblica un articolo ironico
    ma lucidissimo sul The Economist, in cui enuncia quella che diventerà nota come “la legge di
    Parkinson”: “Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo disponibile per il suo
    completamento.” Ma la sua intuizione più corrosiva è un’altra: “La burocrazia tende a crescere
    indipendentemente dalla quantità di lavoro da svolgere.”
    Il meccanismo è semplice: ogni burocrate cerca di accrescere il proprio potere non aumentando
    l’efficienza, ma moltiplicando i propri subordinati. L’organizzazione si espande, si frammenta in
    settori e sottosettori, si riempie di uffici, direzioni, circolari e procedure – non per servire meglio il
    cittadino, ma per rafforzare sé stessa. Ogni riforma viene assorbita, metabolizzata e infine
    neutralizzata da questa logica interna di autoconservazione.
    Parkinson, con umorismo britannico, lo illustra con dati e aneddoti: ministeri che aumentano di
    personale mentre calano le colonie da gestire, reparti amministrativi che duplicano funzioni già
    svolte altrove. Oggi potremmo aggiungere: uffici pubblici informatizzati che però stampano tutto su
    carta, richieste digitali che richiedono comunque la firma in presenza, dirigenti che impiegano mesi
    per approvare un documento di una sola pagina. Tutto ciò non è accidente, ma sintomo: la
    burocrazia funziona secondo logiche sue, non secondo criteri di efficienza.
  3. Il principio di Peter: l’incompetenza come punto d’arrivo
    Un’altra teoria illuminante è il Principio di Peter, formulato nel 1969 da Laurence J. Peter,
    pedagogista canadese. Secondo Peter: “In una gerarchia, ogni individuo tende a essere promosso
    fino al proprio livello di incompetenza.” La logica è spietata: chi è bravo viene promosso, finché
    non raggiunge un ruolo per il quale non è più qualificato. Lì, si ferma. Così, il sistema, soprattutto
    nelle sfere superiori, tende ad essere popolato da persone che occupano ruoli che non sanno più
    gestire.
    In una burocrazia, dove l’anzianità è spesso più importante del merito, questo principio si manifesta
    con chiarezza: i dirigenti incapaci restano in posizione per anni, bloccando innovazioni, prendendo
    decisioni lente o sbagliate, promuovendo a loro volta figure mediocri per non essere messi in
    discussione. Il tutto crea una gerarchia congestionata, inefficiente e resistente al cambiamento.
    Il principio di Peter non è solo una battuta da ufficio: è una descrizione realistica del modo in cui
    molte organizzazioni si strutturano, anche quando partono con le migliori intenzioni. La mediocrità
    si istituzionalizza. E quando si combina con la legge di Parkinson, il risultato è devastante: una
    struttura che cresce continuamente, gestita da persone che non sanno più come gestirla.
  4. Selezione negativa: promuovere i peggiori per sopravvivere
    Un quarto meccanismo completa il quadro: il fenomeno della selezione negativa nella politica.
    Secondo questa teoria – elaborata in forme diverse da studiosi come Bruce Bueno de Mesquita,
    Alastair Smith, e applicata anche a contesti aziendali e burocratici – in certi ambienti, i vertici
    preferiscono circondarsi di collaboratori mediocri, per evitare di essere messi in ombra o sfidati. Il
    risultato è che, nel lungo periodo, non emergono i migliori, ma i più conformi, i più leali, i meno
    pericolosi.
    Il meccanismo non è irrazionale: per un leader insicuro o autoritario, la competenza altrui è una
    minaccia. Meglio promuovere chi non fa ombra. Nelle burocrazie, questo si traduce nella preferenza
    per chi rispetta le procedure senza fare domande, per chi “fa il minimo”, per chi non mette in
    discussione l’ordine esistente. Chi prova a cambiare le cose, spesso, viene isolato o scoraggiato.
    Questa logica si autoalimenta: una volta che il vertice è occupato da persone mediocri, esse
    tenderanno a circondarsi di altri mediocri. Così, nel tempo, la competenza viene espulsa, la qualità
    degrada, e il sistema si blinda in una spirale verso il basso.
    Il circolo vizioso del potere inefficace
    Mettendo insieme queste quattro teorie, il quadro è desolante ma coerente. Abbiamo:
     Una logica machiavellica, dove il potere si esercita per conservarsi, non per servire;
     Una burocrazia “parkinsoniana”, che cresce per autoalimentarsi, non per essere utile;
     Un vertice “peteriano”, popolato da figure promosse oltre le loro capacità;
     Una classe dirigente selezionata negativamente, dove l’obbedienza conta più della
    competenza.
    Il risultato è una macchina che non serve più lo scopo per cui è stata costruita, ma che
    continua a funzionare – anzi, ad espandersi – per mantenere in vita sé stessa. Una macchina
    che diventa resistente al cambiamento, impermeabile alla critica, nemica dell’efficienza e della
    trasparenza.
    Riformare il potere? Solo se lo capisci
    La lezione finale è questa: non si riforma ciò che non si capisce. E troppo spesso le riforme
    amministrative e politiche falliscono perché ignorano queste dinamiche profonde. Cambiano
    l’organigramma, ma non la logica interna. Tagliano uffici, ma non i meccanismi che li fanno
    ricrescere. Introducono nuovi criteri di merito, ma continuano a premiare la fedeltà. È come potare
    un albero malato senza curarne le radici.
    Per riformare davvero il potere, serve un nuovo realismo: uno sguardo lucido, capace di riconoscere
    le distorsioni sistemiche senza cadere nel fatalismo o nel cinismo. Le degenerazioni della burocrazia
    e della politica non sono semplicemente il frutto di errori individuali, ma l’esito prevedibile di
    meccanismi che tendono a premiare la fedeltà cieca, la mediocrità funzionale e la logica della
    sopravvivenza interna più che quella della competenza o del servizio.
    Comprendere a fondo questi meccanismi – e chiamarli per nome – è il primo passo per contrastarli.
    Ma serve di più: occorre una nuova cultura istituzionale, capace di costruire contesti che selezionino
    e promuovano chi è in grado di agire con competenza, responsabilità e visione. Un’architettura del
    potere che non solo prevenga la selezione negativa, ma che incentivi attivamente l’emergere del
    meglio, non del meno peggio.
    In un tempo in cui l’inefficienza e la paralisi decisionale rischiano di diventare strutturali, riformare
    il potere non significa semplicemente cambiare norme o procedure, ma ripensare le premesse stesse
    della leadership, della carriera e del merito. È un compito urgente e difficile, ma non impossibile – a
    condizione di avere il coraggio di guardare il potere per quello che è, e immaginare ciò che potrebbe
    essere.
    Solo così il potere potrà tornare a essere ciò che dovrebbe essere: un mezzo per costruire, servire
    e creare benessere e non un fine per restare, espandersi e schiavizzare.