Emanuela Vezzoli, Prof. Manu (@gramma.tiche) • Foto e video di Instagram

«[…] Vivere finalmente quelle vie

– dedalo di falò, spezie, sospiri

da manti di smeraldo ventilato –

col mendicante livido, acquattato

tra gli orli di una ferita.»

da Passo d’addio, Cristina Campo.

Un tentativo di lettura tra le righe che segue architravi – poesia, spiritualità, esegesi, e riflessione filosofica – e si perde nel chiaroscuro dolce o affilato d’ogni modanatura.

Il midrash, perlomeno nella forma della ’aggadah, è approccio d’esegesi omiletica[1], è modo letterario e intellettuale che si muove nel Pentateuco con l’intenzione di andare al di là del senso letterale, di scovare connessioni tra brani e libri, di dare ascolto alla sequenza di parole – spesso, addirittura, di lettere – di inserirvisi, di svelarne i segreti, di colmarne i vuoti, per recuperare senso e essere, per partecipare della Rivelazione, di quella più intima, di quella di un Dio che comunica al singolo e lo guida, lo spiazza, si lascia interrogare, lo corregge, lo rassicura, lo dilania – talvolta – per curarlo. Il termine midrash, infatti, deriva dalla radice d r sh, che significa cercare, investigare, interrogare e si colloca tra l’interpretazione puntuale del testo sacro, la traduzione, la costruzione e la ricostruzione poetica.

Come potrebbe non risuonare Derrida, a questo punto? Che cosa fa, il filosofo e saggista francese: egli afferma anzitutto il primato della scrittura sulla voce, sul fonocentrismo, sul logocentrismo occidentale. E lo fa in maniera plateale con il suo esempio: scrive la parola différAnce con A, anziché con E, come invece vorrebbe il dizionario. La pronuncia dei due termini è esattamente la stessa, il che ci dimostra come la voce non sia in grado di dar conto dell’esistere e lella verità di questa parola, esistere e verità che sono (esistono) invece solo ed esclusivamente in virtù dell’atto dello scrivere. È dunque la scrittura – e non il dire – l’origine e la fine del linguaggio e, addirittura, dell’essere. Ogni traccia scritta è infatti sempre «archi-scrittura», è solco primitivo, primigenio dell’essere stesso.

Nel suo assegnare il primato alla scrittura, D. fa dunque un’operazione midrashica, perché cerca nelle inarcature del linguaggio, nella lettera, nella curvatura della parola il senso, nonché la traccia dell’essere (che in Heidegger è ancor più evidente – la parola poetica è per lui atto fondante). E si inserisce nei vuoti del racconto, nelle ferite, nelle interconnessioni, proprio come chi lo fa sulla Bibbia – per trovare lì l’essenza vera, l’Essere in sé –, proprio come fa Cristina Campo nella sua prosa, nei suoi versi, là dove ogni parola è materia sacra, toccata con la cura e il rispetto riservati alle reliquie. La scrittura, per Campo, è atto liturgico: una gestualità incarnata che prepara lo spazio per una possibile epifania. Le “pieghe”, les plis merleau-pontiane, ondulazioni della carne del mondo, diventano nel suo scrivere figure dell’invisibile, segni dell’oltre. Cristina concepisce la parola come carne del mondo: essa si situa tra visibile e invisibile, tra materia e senso. È un corpo che pensa e un pensiero che si incarna.

Cristina Campo

Cristina è anche traduttrice raffinatissima –sin da piccola era stata abituata dal padre a leggere i classici in lingua originale. Per lei, la traduzione non è mera trasposizione semantica, è un atto spirituale: tradurre è trasfigurare, come accade nella riscrittura midrashica. L’interprete entra nel testo non per dominarlo, ma per lasciarsi trasformare dallo stesso. Ogni scelta linguistica implica una responsabilità etica, e la traduzione diventa un’offerta, una mediazione sacrale. In questo senso, Campo incarna la figura dell’interprete-sacerdote: colui che custodisce la soglia, che veglia sul mistero.

Il suo approccio dialoga, peraltro, a distanza, con quello di Emily Dickinson, poetessa delle fratture e delle ellissi, per la quale il linguaggio è sempre stato un tentativo di alludere a ciò che resta irriducibile al concetto. Le sue pause – rese con un trattino (dash) – cosa sono infatti se non varchi, fenditure, aperture a un significato altro, consonanti con la poetica campiana dell’indicibile?

La produzione di Cristina si fonda sulla convinzione che la bellezza costituisca lo splendore del vero – uno splendore che si cela. La sua è una poetica apofatica: non si tratta di dire Dio, ma di sgomberare lo spazio da ciò che Dio non è. La parola, allora, diventa kenosi, svuotamento, attesa, accoglienza. La lingua viene così purificata, resa idonea a ospitare il numinoso, affinché, se vuole, vi si posi la grazia. Anche qui, perché non tornare a Emily?: «Tell all the Truth but tell it slant –» è l’invito a una rivelazione indiretta, sfalsata, mai arrogante. La verità va detta tutta, ma in obliquo, così che non ferisca, così che sia (ac)colta.

Il significato non è un dato immediato, si dischiude negli interstizi del linguaggio. La parola non è mezzo, ma luogo; non strumento, ma soglia. Leggere, scrivere, tradurre diventano dunque atti di vigilanza spirituale, di attenzione radicale, di ascolto del silenzio, di sollevamento di un velo, perché è proprio «la tecnica del velamento [che …] massimizza il piacere del testo e fa della lettura un atto d’amore»[2].

«La bellezza ci salverà», si ripete spesso, purché si abbia chiaro che si tratta della pulchritudo agostiniana, della grazia, non della bellezza che abbaglia – bensì di quella che si ritrae, che bisbiglia, che rivela velando. La bellezza che, come la verità, abita nelle pieghe della parola, si nasconde «tra gli orli di una ferita».


[1] Quella che «trova la sua origine   naturale [… là] dove il rabbino spiega alla comunità le scritture, e stabilisce, attraverso la sua omelia (derashah) un contatto tra l’attualità e la storia», in Midrashim, Testi scelti e tradotti da Rav Riccardo Pacifici nel 1943, Gerusalemme 2017.

[2] Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo, Milano 2025, p.42.