Dott. Indro D’Orlando

Uno degli aspetti che caratterizza l’essere umano è l’abbigliamento, ovvero il suo modo di presentarsi a contatto con i propri simili e di saper porsi adeguatamente in un contesto con uno scopo preciso.

Da sempre, le diverse culture umane hanno sviluppato un modo proprio di vestirsi che è, al contempo, una scelta determinata dal contesto geografico, dal clima, dalle esigenze pratiche, ma anche dalle usanze formali, rituali, e religiose di un popolo.

Nel XIX sec., in Occidente, è stata attuata – a tutti i livelli della cultura – un’operazione di rottura con la nostra Tradizione occidentale, la quale per diversi secoli si era gradualmente elaborata e trasformata rispettando un criterio fondamentale per l’identità, la ricchezza e la saldezza di una cultura: la continuità con il passato.

Ogni cultura europea caratterizzata da tante culture regionali, dai Monti Urali all’Oceano Atlantico, dal Mediterraneo al Mare del Nord, si era progressivamente fatta e strutturata come tanti fili costituenti una trama unita nella sua diversità. Esistevano ovunque caratteristiche proprie di ogni microcosmo culturale, ben codificate, che formavano, strutturavano ed orientavano la vita privata, sociale, economica, religiosa, culturale e politica di una nazione, di una comunità di popoli, costituendo l’identità e la bellezza peculiare di una cultura.

Nell’arco di pochi decenni, dagli anni 60 in poi, un “vento” di guerra culturale ha soffiato sul nostro vecchio continente per poi diffondersi come un’ideologia quasi universale, devastando progressivamente le identità e culture regionali, quindi le tradizioni dei popoli, il folclore, l’economia locale, le forme architettoniche, le abitudini alimentari, i costumi regionali, e ciò a favore di un concetto di mondo “moderno” globale, uniformato, in cui una specie di unico modello culturale si è delineato nettamente diffondendosi ed imponendosi quasi ovunque.

A prova di ciò è sufficiente osservare il volto architettonico delle grandi città di oggi, praticamente uniformate come un copia incolla; la diffusione dei prodotti industriali che s’impongono su quelli locali e regionali, condannandoli all’oblio; le catene di negozi e servizi che si offrono ovunque nel mondo con gli stessi prodotti a scapito delle vere realtà culturali destinate a diventare tristemente delle mere attrazioni di consumo turistico.

Bambini degli anni 60
Maranza

Questo movimento di “modernità” globale – spacciato come processo – è sostanzialmente basato sulla riduzione o distruzione delle forme tradizionali, sulla relativizzazione dei valori e principi archetipici che per secoli e millenni hanno costituito la vita e la bellezza delle culture e dei popoli.

Attualmente, stiamo assistendo agli esiti degradanti ed alienanti di questo movimento: il “vento” si è fatto “tempesta” e devasta tutti gli elementi fondamentali che la storia delle culture ha sapientemente costruito e custodito, da una generazione all’altra, per secoli, in alcune regioni per millenni.

Nella fattispecie, l’evo moderno del degrado dell’abbigliamento che riduce il vestire a “look”, ha quindi portato gradualmente al totale abbandono del costume etnico, regionale e nazionale, nonché della funzione sociale della vestizione, a favore di un moltiplicarsi di “stili” che altro non sono che il rivestimento dell’espressione della propria soggettività, a scapito della reale funzione del vestire: manifestarsi nella società come persona situata in una cultura, in un contesto preciso, con il proprio ruolo e mettersi adeguatamente in relazione con gli altri e con la propria funzione sociale coerente con la propria identità culturale.

Infatti, l’individuo come persona è tale perché, anzi tutto, riconosciuto dagli altri, quindi è tale perché vive nella società, entra in relazione con i suoi simili. L’abbigliamento è del tutto fondamentale per stabilire questo livello relazionale in cui l’identità, il ruolo, la cultura comune, la funzione della persona debbono essere chiari.

I vestiti, pertanto, non sono soltanto pezzi di un “look”, bensì accessori essenziali con funzioni sociali e culturali fondamentali in quanto elementi relazionali sostanziali, con i quali l’apparenza della persona assume un ruolo significativo nel sistema comunicativo.

Nell’ambito della sociologia, l’abbigliamento è ritenuto una categoria sostanziale del sociale in quanto costituisce uno degli elementi essenziali nella dinamica relazionale. Relativizzarlo non è possibile senza relativizzare l’importanza che riveste il riconoscimento di una funzione e l’esercizio legittimo del suo ruolo all’interno di un contesto inteso come sistema di riferimento comunicativo.

Attualmente, stiamo assistendo ad un relativismo sistemico diffuso praticamente ovunque: nella politica, nell’economia, nei rapporti sociali e professionali, persino nelle strutture educative e scolastiche.

Infatti, oggi giorno assistiamo nelle scuole di ogni ordine ad un graduale degrado della presentabilità ovvero della decenza e del decoro degli allievi e non solo.

Da ciò che si assiste vedere nelle scuole, pare che l’abbigliamento non abbia più alcuna rilevanza nei rapporti sociali e professionali.

L’abbigliamento è veramente un fattore irrilevante o relativo nell’attuazione dei ruoli sociali e professionali?

Alla luce delle considerazioni qui sopra delineate, non può essere considerato relativo perché l’abbigliamento è – a tutti gli effetti – un fattore determinante nella relazione umana e, quindi, nell’attuazione del proprio ruolo sociale e professionale. E questa verità andrebbe dunque insegnata soprattutto a scuola.

Lo scopo dell’educazione di un giovane non riguarda soltanto lo sviluppo positivo ed armonioso della sua persona come soggettività, ma anche come persona sociale in un rapporto giusto ed equilibrato con il mondo culturale nel quale sarà chiamata ad entrare ed agire. Infatti, è importante che capisca che la tenuta vestimentaria gioca un ruolo di primo piano nelle dinamiche interpersonali e professionali.

L’uniforme che sempre caratterizza un contesto in cui l’abbigliamento sancisce una funzione precisa rispetto alla situazione, “sacralizza” il ruolo di colui o colei che la indossa.

Pertanto, la divisa scolastica potrebbe assumere questo senso per il giovane: sancire e ritualizzare la manifestazione della propria persona all’interno di un contesto che richiede atteggiamenti relazionali ben precisi.

In un’età in cui la giovane persona adolescente impara a conoscersi e a relazionarsi a se stessa con il proprio stile di abbigliamento, è importante che impari pure a relazionarsi con il mondo, con la propria funzione ed il proprio ruolo.

I riti sociali hanno una funzione stabilizzante e la qualità della vestizione rientra in questo ambito. La qualità non riguarda soltanto il tipo di materiale, bensì l’equilibrato rapporto tra il tipo d’indumenti e la loro funzione pratica e rappresentativa. Certi indumenti non sono assolutamente adatti ad un compito oppure ad un ben preciso contesto.

Pertanto, dove i futuri attori sociali possono imparare il ruolo e la qualità della vestizione se non a scuola, quale istituzione che si assume il ruolo principale di educatore e stabilizzatore sociale?

Non dovrebbe la scuola trasmettere il senso del bello e del pudore, due principi importanti per il pubblico decoro? Lasciare alle famiglie ed agli allievi l’arbitrio in questo ambito conduce logicamente al relativismo e alla tirannia del soggetto.

La soggettività, oggi, è diventata un idolo. Sembra che essa possa e debba anteporsi a tutto. Allo stesso livello di dogmatismo, l’utilità e la funzionalità s’impongono nella collettività sociale, a scapito di tante – troppe – altre qualità.

Non ci sono motivi oggettivi per ritenere che la soggettività sia l’espressione più virtuosa e significativa della personalità e della sua libertà. Parimenti, l’utilità e la funzionalità non garantiscono per forza la qualità ed il benessere di una società.

Come ha dimostrato il pensatore tedesco Schiller nelle sue “Lettere sull’educazione estetica dell’Uomo”, l’estetica intesa come questione morale dell’Uomo è del tutto fondamentale in una società che si vuole civile ed evoluta. Non a caso, tutte le grandi civiltà hanno sviluppato un sistema estetico, una filosofia del bello molto elaborata, attuata e resa manifesta e coesa nell’architettura, nell’arte, e, appunto, nell’abbigliamento.

La cultura degradata di oggi si manifesta come una specie di “anti-filosofia del bello” oppure di “filosofia del caos” perché priva di forme, di logica, di criteri di bellezza fondati ed oggettivi, priva di principi e valori che non siano meramente l’espressione della pura e semplice manifestazione dell’arbitrio del soggetto e del consumismo pilotato dalle multinazionali dell’industria della “moda”.

Principe del Galles

L’estetica culturale intesa come sistema di valori fornisce all’individuo e alla collettività un codice di riferimento ed orientante su cui si possono basare, formare e stabilizzare le strutture relazionali, sociali e professionali senza correre il rischio di scadere nell’anarchico imbarbarimento delle manifestazioni personali e collettive a scapito dell’ordine, della decenza e della bellezza.

Malcostume

L’attuale “look” dei giovani rappresenta l’esito di un processo di degrado culturale iniziato alla fine degli anni 60 del secolo scorso, di demolizione sistemica delle forme tradizionali che, nella fattispecie, hanno portato l’arte della vestizione ad un pressoché totale relativismo non solo dell’arte sartoriale, ma anche del buon gusto, del pudore, e del senso del bello.

Si è diffusa tra in giovani – e non solo – un tipo di abbigliamento molto standardizzato, infatti, la creatività è quasi nulla: si palesa un conformismo triste, per non dire squallido; le forme non sono più proporzionate, pressoché assenti, qualsiasi cosa può essere indossata, anche sporca, rotta, persino volgare ed oscena; il disordine regna e determina le scelte, oppure s’impone una pura e semplice casualità creando un’ immagine senza alcun senso delle proporzioni e dei rapporti armonici tra un indumento e l’altro; i colori quando non sono assenti, sono del tutto eccessivi oppure scombinati; le parti del corpo che dovrebbero essere private e sensatamente coperte, non lo sono, anzi vengono ostentate nel modo più estroso ed eversivo possibile con un evidente eccesso di provocazione e di erotizzazione; i ritmi stagionali sono ignorati, per cui anche i materiali che caratterizzavano una sana igiene personale, dato che ogni stagione avrebbe i propri materiali specifici come la lana per l’inverno e il lino per l’estate; ormai tutto – o quasi –  è un derivato sintetico del petrolio; la contestualità non è più colta e capita, un luogo vale l’altro senza alcuna distinzione, per non parlare dei riti sociali che sono diventati il teatro della più gretta imposizione della soggettività su tutto il resto, senza alcun rispetto per l’impatto della propria vestizione sulla sensibilità altrui.

Per cui, l’abbigliamento non è più minimamente compreso nella sua valenza relazionale e sociale, ma solo e soltanto nella sua dimensione personale, quale pura e semplice espressione di sé, ma un’espressione alienata dal diktat di una moda omologante all’interno della quale la creatività dell’individuo è pressoché nulla.

Notiamo pure un certo ritorno alle forme più primitive dell’abbigliamento, non solo con la scelta d’indumenti che avvicinano il “look” – e non solo – ad una specie di ritorno tribale postmoderno alla natura, uno stile “giungla urbana” con tatuaggi, piercing, acconciature che si rifanno a culture tribali, e quant’altro, condizionando poi il modo di interagire, di porsi con atteggiamenti coerenti ed in linea con questo tipo di vestizione, che manifestano un’evidente volgarizzazione e degenerazione, in certi casi con esternazioni umanamente e civilmente insensate che rasentano atteggiamenti animaleschi.

Di tutto ciò, non solo le famiglie sono responsabili, ma anche le scuole. E la questione non può più essere ignorata se non si vuole un ulteriore peggioramento. Il problema è etico e quindi va seriamente affrontato.

L’estetica è anche etica perché l’estetica è una dimensione relazionale e non solo personale: un’estetica veicola un certo tipo di atteggiamento, un saper essere e saper vivere.

Compito delle scuole di ogni ordine è fornire all’individuo in fase di crescita e di umanizzazione i principi ed i valori che gli permettono di comprendere questo fatto irriducibile. Ma, purtroppo, accade di rado e non esistono attualmente regole condivise e sufficienti per agire con efficacia sul piano educativo.

Il problema che troppo frequentemente viene sollevato è la presunta relatività dell’estetica, come se fosse un punto di vista, un’opinione.

In realtà, nella nostra Tradizione occidentale, esistono criteri filosofici oggettivi che da secoli hanno fondato ed orientato le scelte estetiche. Senza dover imbattersi in una storia della bellezza delle forme estetiche e, nella fattispecie, dell’abbigliamento, è alquanto sufficiente ricordare i tre principi vitruviani che, malgrado la loro originaria funzione orientante per la realizzazione delle opere architettoniche, sono indubbiamente tuttora validi per l’arte della vestizione.

La firmitas è il principio base che induce a ricercare la solidità ovvero la qualità del lavoro e del materiale che costituiscono insieme il valore reale dell’indumento; l’utilitas invece pone l’accento sulla destinazione d’uso, ossia l’adeguatezza del capo d’abbigliamento rispetto alla situazione e alla funzione; infine la venustas, ovvero la bellezza, l’armonia estetica fatta anzi tutto di giuste proporzioni e di eleganza.

Nemmeno l’eleganza può essere relativizzata in quanto esistono criteri oggettivi per definirla.

L’eleganza è anzi tutto fondata sull’equilibrio. Qualsiasi espressione eccentrica ed eccessivamente estrosa non rientra nell’ambito dell’eleganza.

L’appropriatezza è fondamentale. L’eleganza è un atto che assume un senso se è appropriata alla situazione, alla funzione nonché alla persona e al tipo di relazioni in un preciso momento e contesto.

La cultura e conoscenza dei materiali, degli indumenti, quindi dei vari capi d’abbigliamento, degli accessori e della loro funzione, è del tutto fondamentale per acquisire una buona educazione. La scelta inopportuna di un capo d’abbigliamento può rappresentare un atto di volgarità, di maleducazione o di mancanza di rispetto.

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Questi pochi elementi dimostrano che la presunta relatività dell’eleganza non sia altro che un’ubbia comoda di chi vuole abusare della libertà personale per favorire un’egoistica espressione di sé, a scapito dei buoni costumi.

Educare i giovani al bello ed all’eleganza rientra dunque nella sfera etica e morale dell’educazione. Attualmente, le situazioni che si possono osservare nelle scuole di ogni grado, persino nelle scuole materne, sono raccapriccianti. I bambini piccoli subiscono l’arbitrio di genitori sempre più inconsapevoli ed ignari delle regole essenziali della vestizione del bambino, mentre gli adolescenti sono  completamente abbandonati e lasciati in balia dei capricci della propria volontà senza alcun criterio, dato che molti adulti oggi non ne hanno più. E non si può dare ciò che non si ha.

Lino

E’ dunque urgente che la politica e le istituzioni prendano coscienza della portata etica del problema estetico e si mettano all’opera affinché possano ritornare nelle scuole dei principi disciplinari attuati ai fini di una corretta educazione dei bambini e degli adolescenti riguardo all’abbigliamento.

L’ idea che l’arbitrio della soggettività è moralmente giusta, che l’espressione di sé deve prevalere, che la libertà conta più di qualsiasi altro valore, che l’apparenza e l’eleganza, la cura di sé, la bellezza sono alla radice del formalismo e dell’elitarismo e che ogni

elitarismo è il nucleo di un processo antidemocratico ha generato

fiumi di ovvietà e di concetti pericolosi e degradanti, di cui oggi la scuola, e, quindi, la società costituiscono il più palese e raccapricciante teatro dell’assurdo in cui quasi tutto può succedere a scapito della sensibilità, del rispetto, della buona educazione e del sapere essere. E ciò con tutte le inevitabili conseguenze comportamentali e morali che questo degrado genera nella vita individuale e collettiva.

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