ll conte Giovanni Sassoli de’ Bianchi e l’utopia dei Villaggi Liberi: un sogno di comunità senza leggi, tasse e auto

C’è chi definisce la sua idea una follia, e chi invece vi scorge un lampo di genio visionario. Giovanni Sassoli de’ Bianchi, 81 anni, imprenditore bolognese di nobile stirpe, discendente della famiglia che fondò la Buton — la storica casa produttrice della Vecchia Romagna — e oggi attivo tra Bologna e Lugano per la Mangaroca, azienda di famiglia che produce la celebre Batida, il conte Sassoli de’ Bianchi porta avanti da anni un progetto tanto audace quanto idealista: la creazione di comunità autonome, riconosciute dallo Stato, ma indipendenti da leggi, tasse, auto e denaro. Villaggi autosufficienti, capaci di vivere secondo regole di solidarietà, semplicità e rispetto della Terra.

Il ricco conte che vuole rilanciare le Comuni: “Contro il consumismo il partito dei villaggi” – la Repubblica

Nel manifesto filosofico del movimento, apprezzato anche da Diego Fusaro, — da lui definito non un partito, ma “un’idea” — si legge la denuncia contro “un consumismo sfrenato” e contro una politica che “ha agito come se le risorse della Terra fossero infinite”. La proposta è quella di ripartire da piccole porzioni di territorio, “spazi liberi”, dove uomini e donne possano organizzarsi secondo una democrazia diretta e cooperativa, basata sull’aiuto reciproco e sull’armonia con l’ambiente.

L’obiettivo, spiega Sassoli, è “tornare a vivere in modo umano”, riducendo al minimo i bisogni artificiali e restituendo alla persona la propria dignità spirituale e comunitaria. I villaggi, secondo la visione del conte, diventerebbero laboratori di rinascita sociale, esperimenti di convivenza in cui non servono auto né banche, ma solo il senso del bene comune.

Otto anni fa, Sassoli de’ Bianchi fece parlare di sé acquistando una pagina intera sui quotidiani nazionali e distribuendo volantini davanti a Montecitorio, sede della Camera dei Deputati. “Solo Rosi Bindi mi ascoltò — ricorda oggi con un sorriso amaro — ma poi non la sentii più”. Il suo appello richiedeva una modifica costituzionale per riconoscere la possibilità di creare questi villaggi sovrani, oggi ancora formalmente impossibili.

Eppure, il conte non si è fermato. Da Bologna, dove vive e lavora, ha ricominciato a diffondere manifesti e scritti per sensibilizzare l’opinione pubblica. “Riparto adesso perché c’è un gran bisogno — dice — il mondo soffre, ci sono guerre, crisi economiche, solitudini. I nuovi villaggi possono servire a evitare tante sofferenze”.

Sassoli de’ Bianchi non parla da politico, ma da visionario moderno che guarda al futuro come a un ritorno alle origini: comunità piccole, solidali, spiritualmente forti, in grado di opporsi tanto al gigantismo delle metropoli quanto alla burocrazia paralizzante degli Stati.

Il suo sogno, per ora, resta sospeso tra utopia e profezia. Ma come spesso accade ai veri sognatori, ciò che conta per lui non è la riuscita immediata, bensì l’atto stesso del seminare un’idea. “Un giorno — dice — qualcuno realizzerà davvero questi villaggi. E allora capiremo che la libertà non sta nelle leggi o nei mercati, ma nel saper vivere insieme, in pace e in verità.”

In un’epoca segnata dal dualismo sterile tra nazionalismi chiusi e globalismi anonimi, si fa strada un’idea nuova, o forse antica: quella dei Villaggi Sovrani, microcomunità autogestite che rimettono al centro la persona, la solidarietà e il principio di libertà reale. È un progetto che si presenta come “oltre A e B”, per dirla con Adorno — un tentativo di pensare la convivenza al di là delle costrizioni ideologiche e delle forme politiche ormai esaurite.

La “Torre di Monte Capra”, dove Giovanni Sassoli de Bianchi spesso
riceve i suoi ospiti.

I Villaggi Sovrani nascono da una visione tanto radicale quanto concreta: la Total Devolution, ovvero il trasferimento completo di competenze e poteri da parte degli Stati verso piccole porzioni del loro territorio. Si tratta, in sostanza, di restituire alla comunità locale la facoltà di autogovernarsi, di creare un modello alternativo in cui economia, educazione, cultura e vita civile tornino a misura d’uomo.

Nel manifesto programmatico leggiamo parole che suonano come un manifesto della speranza:

Villaggi Sovrani

“Tutto quello di buono e di giusto che non è possibile fare su tutto il territorio delle nazioni sovrane, è invece possibile farlo, tutto e subito, su piccole porzioni di territorio. Quelle piccole porzioni di territorio sono i Villaggi Sovrani.”

Non più dunque la megamacchina statale o il potere invisibile dei mercati globali, ma il ritorno alla polis, alla comunità viva e pensante di persone che condividono spazi, responsabilità e ideali. È un ritorno, in senso aristotelico, alla dimensione della koinonía, la comunità del bene comune, dove ogni individuo è parte attiva di un tutto armonico.

I villaggi sovrani si fondano su principi di solidarietà, gratuità dei servizi e cooperazione, ponendosi come alternativa etica e politica al privatismo competitivo e alla mercificazione globale. In essi la tecnologia non è fine ma strumento, la natura non è risorsa da sfruttare ma alleata da rispettare, e la spiritualità — non in senso confessionale ma umano — torna a essere il centro del vivere civile.

È un modello che immagina una nuova economia del dono, un sistema in cui il valore non è misurato dal profitto ma dalla capacità di creare relazioni, di accrescere il bene comune, di vivere secondo ritmi sostenibili. Non più cittadini isolati dentro megalopoli impersonali, ma membri di una comunità che riconosce nel volto dell’altro la propria stessa libertà.

L’utopia dei Villaggi Sovrani non è una fuga dal mondo, ma il tentativo di rigenerarlo dal basso, di mostrare che un’altra organizzazione sociale è possibile. Un progetto visionario, certo, ma anche profondamente realistico nella misura in cui intercetta un bisogno diffuso: quello di ritrovare un senso, un’appartenenza, una misura umana della vita.

In un tempo in cui la libertà sembra ridotta a consumo e la politica a gestione, i Villaggi Sovrani ricordano che la vera libertà non è scegliere tra opzioni imposte, ma inventare nuove possibilità. Tornare a essere sovrani, non di nazioni, ma di comunità vive, solidali e consapevoli: forse è proprio questa la rivoluzione silenziosa di cui il nostro secolo ha più bisogno.

a cura di Liliane Tami