A cura di Indro D’Orlando
La bibliografia su Dante e sulla Divina Commedia è immensa per non dire sterminata.
Sul Poeta fiorentino e sul Poema sono passati secoli di scrittura, commenti, interpretazioni che non consentono un’unica ed univoca risposta in merito all’enigmatica personalità di Dante e, sopratutto, riguardo al messaggio della sua opera maggiore.
Il suo Poema rimane ancora oggi un enigma che continua a stimolare i suoi appassionati lettori e studiosi, perché, di certo, non può dirsi conclusa l’impresa di esplorazione e di comprensione dei 14’233 versi che lo compongono.
In questi brevi contributi che ho deciso di caratterizzare con l’espressione “Oltre il velame” – riferendomi ai famosi versi del nono canto delI’Inferno O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani – intendo trattare aspetti particolari di non semplice comprensione immediata, a volte enigmi esposti in evidenza, che, se enucleati e letti con la giusta luce, possono favorire una maggior penetrazione del senso del testo e ciò affinché il lettore possa avvicinarsi sempre più al valore spirituale del poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra come afferma Dante nel Paradiso.

Un mistero numerologico nella cifra poetica della Commedia
Per Dante, la parola umana è nella sua essenza “verbum de celis” in quanto risale al “soffio divino” della Creazione.
Hec est nostra vera prima locutio. Non dico autem ‘nostra’, ut et aliam sit esse locutionem quam hominis; nam eorum que sunt omnium soli homini datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit.
( De Vulgari Eloquentia I,ii)
(Trad. = Questa è dunque la nostra vera lingua primaria. Ma non dico “nostra” come se fosse possibile l’esistenza di altra lingua oltre a quella dell’uomo: solo all’uomo infatti, fra tutti gli esseri, è stata concessa la parola, perché solo a lui era necessaria.)
In virtù di questo primato nella Creazione, Dante ritiene la lingua umana lo strumento maggiormente atto ad esprimere le conoscenze più elevate e più importanti: la “necessità” evocata da Dante nel brano qui sopra è la meta del cammino dell’Umanità: la Verità – il Logos – che solo la parola umana può disvelare. Infatti, Dio per comunicarsi al mondo ha usato la lingua umana.
A proposito, come non ricordare – nel ventiduesimo canto del Purgatorio – le parole che Dante fa dire al poeta Stazio, il quale afferma che Virgilio lo ha avviato alla poesia e per primo – con l’arte poetica e non con altro – lo ha illuminato nel cammino verso Dio; la parola virgiliana, emblema della voce umana nobilitata con la poesia illumina la mente:
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte
(Purgatorio XXII, 67-69)
Virgilio fu uno dei più notevoli poeti latini, se non il più grande, ed è noto che Dante riconosce proprio in lui il suo maestro ed il suo autore, dal quale ha ripreso “lo bello stilo”.
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’ io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
(Inferno I, 79-87)
Virgilio è, da secoli, ritenuto l’epigono di una lunga ed antica tradizione di matrice misterica, iniziatica. Un maestro, come afferma Dante, la cui poesia non è solo poesia, ma anche “scienza” perché in grado d’iniziare alla conoscenza sottile – esoterica – della vita e del mondo. Quale scienza, se non la teologia, è quella in grado d’incamminare la conoscenza umana fino alle verità supreme? Virgilio scienziato dello spirito? Per Dante indubbiamente.
Già Macrobio, poeta latino vissuto tra il IV ed il V sec., nei “Saturnalia”, opera centrata sulla figura di Virgilio, afferma:
Videsne eloquentiam omnium varietate distinctam? quam quidem mihi videtur Vergilius non sine quodam praesagio, quo se omnium profectibus praeparabat, de industria permiscuisse idque non mortali sed divino ingenio praevidisse: atque adeo non alium secutus ducem quam ipsam rerum omnium matrem naturam, hanc pertexuit velut in musica concordiam dissonorum.
(Saturnalia liber V)

La tesi presente in queste pagine, sostenuta da numerosi interpreti esoterici dell’opera dantesca, è di considerare l’espressione “lo bello stilo” di Virgilio – evocato da Dante – un indizio importante sulla relazione dell’autore dell’Eneide con la tradizione pitagorica, con cui Virgilio fu certamente in contatto data la sua lunga permanenza a Napoli, città dove l’orfismo ed il pitagorismo furono cifre culturali molto significative. Una tale connessione tra Virgilio e questi ambienti culturali e, quindi, la scienza numerologica di queste tradizioni, di cui la poesia virgiliana fu molto probabilmente imbevuta, è una traccia molto interessante da approfondire, in grado d’illuminare molti aspetti misteriosi del Poema dantesco.
Tramite il Virgilio pitagorico e la tradizione esoterica che lo rappresenta, Dante poeta è iniziato alla “scienza del ritmo”, ovvero lo studio delle leggi che governano la matematica musicale della lingua umana, quindi l’ordine recitativo fondato sul ritmo numerico.
Una prova? Dante va collocato nella lunga tradizione dell’antico verseggiare dei “Carmina”, ovvero le recitazioni sacre degli antichi “vaticini”, vere e proprie creazioni dello spirito per rappresentare poeticamente le verità spirituali. La Commedia è precisamente un’opera di questa natura. Questo il motivo per cui Dante ha giustamente definito il suo Poema, il “sacrato poema”.
E` noto che nella Commedia esistono corrispondenze numeriche, in un certo senso “nascoste in evidenza”, che inducono il lettore attento a comprendere che l’intero Poema è costruito su di una precisa architettura, di cui i numeri e i loro rapporti costituiscono un elemento essenziale dell’intera opera. Uno di questi è il rapporto numerico forse più importante della Commedia: la tripartizione 1-3-7 che caratterizza la logica prosodica del canto dantesco.
La matrice metrica fondamentale del Poema è la terzina, un’invenzione di Dante: si tratta di un insieme di tre versi endecasillabi (11 sillabe per ciascun verso, quindi per un totale nella terzina di 33 sillabe) che vuole soddisfare una precisa volontà ritmica dell’autore perché la terzina dantesca è un metro aperto, fondato su un meccanismo propulsivo che genera una continua dinamica delle rime, una continua – infinita – evoluzione e tensione.
Quest’unità prosodica si fonda anzi tutto sul primo verso, il quale rima sempre con il terzo verso della terzina;
1. Nel mezzo del cammin di nostra vita (11 sillabe)
2. mi ritrovai per una selva oscura (11 sillabe)
3. ché la diritta via era smarrita. (11 sillabe)
4. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
5. esta selva selvaggia e aspra e forte
6. che nel pensier rinova la paura!
7. Tant’ è amara che poco è più morte;
8. ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
9. dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
La trama rimica creata da Dante con le terzine incatenate (secondo lo schema ABA BCB CDC …) sarebbe senza fine, non avrebbe una conclusione se non fosse per il settimo ed ultimo verso che Dante usa come punto di arresto per chiudere la sequenza delle terzine, con le ultime due terzine di ogni canto (secondo lo schema XYX YZY Z): ad esempio, cosi leggiamo la conclusione del primo canto dell’Inferno:
130. E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
131. per quello Dio che tu non conoscesti,
132. acciò ch’io fugga questo male e peggio,
133. che tu mi meni là dov’or dicesti,
134. sì ch’io veggia la porta di san Pietro
135. e color cui tu fai cotanto mesti».
136. Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Questa è dunque la struttura sulla quale è architettata tutta la Commedia per un totale di 14 mila 233 versi.
Quindi questi tre numeri, 1-3-7 (rispettivamente l’1 per il primo verso che genera il canto e la terzina; il 3 per ogni terzina; il 7 per il settimo verso che chiude le terzine incatenate di ogni canto ) compongo il numero 137.
Questa tripartizione numerica voluta da Dante può sembrare del tutto casuale – ma non lo è per oggettivi motivi poetici – oppure puramente funzionale alla sua metrica.
Invece, dà molto da pensare se si è a conoscenza dell’importanza del numero 137 per la fisica teorica.
Uno su 137 è tra i rapporti numerici più importanti della fisica perché costituisce una delle costanti matematiche che ha rappresentato un vero e proprio mistero, tuttora irrisolto.
Si tratterebbe della “costante di struttura fine” che rappresenta ad oggi un enigma all’interno della fisica atomica e delle particelle.

La costante di struttura fine descrive la forza dell’interazione elettromagnetica, in particolare, rappresenta la forza dell’interazione elettromagnetica fra la luce e le particelle elementari cariche, come gli elettroni. Se la costante di struttura fine avesse un valore diverso, l’universo apparirebbe completamente diverso: gli atomi avrebbero dimensioni diverse, tutta la chimica funzionerebbe in modo diverso e anche la fusione nucleare nelle stelle sarebbe completamente diversa.
Ricordo al lettore che la parola “stelle” conclude ogni cantica della Commedia.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Inferno, XXXIV)
Puro e disposto a salire alle stelle.
(Purgatorio XXXIII)
L’amor che move il sole e l’altre stelle.
(Paradiso, XXXIII)
Ovviamente ciò non può bastare per argomentare che Dante conoscesse la fusione nucleare delle stelle. In ogni caso, rimane il fatto che la coincidenza tra questi elementi è molto singolare.
Mettere in relazione contenuti della Divina Commedia con elementi fondamentali della fisica contemporanea potrebbe sembrare per alcuni lettori una forzatura. Si tratta indubbiamente di un approccio ardito e di difficile valutazione.
Tuttavia ci sono domande importanti che restano aperte.
Perché la terzina dantesca?
Perché chiudere ogni canto con un settimo verso e non con l’ultimo verso di una terzina?
Evidentemente, la metrica non è solo metrica, è suono, è dinamica, è vibrazione. Cosa voleva realmente Dante con questo impianto metrico?
E perché evocare qui il numero 137 della costante di struttura fine?
Perché la Commedia, lungo i secoli, si è confermata – sempre più – un “libro mondo” scritto da un uomo con indubbie capacità di gran lunga superiori alla media, in grado d’illuminare la realtà approfondendone gli arcani e le grandi verità. Che la matrice metrica della Commedia corrisponda numerologicamente alla matrice della realtà è in ogni caso un fatto che non va di principio ignorato o minimizzato.
Che il Poema dantesco possa essere avvicinato alla scienza contemporanea non deve stupire e sembrare inopportuno. Infatti, un grande scienziato russo, Pavel A. Florenskij (1882-1937), soprannominato il “Leonardo da Vinci della Russia”, ha comparato la visione cosmologica presente nella Commedia di Dante con il pensiero fisico del XX sec.

Nel Poema dantesco, Florenskij individua un’incredibile anticipazione scientifica: la concezione non euclidea dello spazio. Che anche questa possa essere una singolare coincidenza o non esserlo, non spetta al sottoscritto dirlo e non spetta a queste pagine valutare l’audace lettura di Florenskij. Rimane il fatto che questi elementi rappresentano indubbie tracce di ricerca che meritano molta più attenzione di quanto finora gli ambienti accademici abbiano dimostrato, nonché un validissimo motivo per continuare a leggere e rileggere il capolavoro del sommo Poeta.
“La Divina Commedia sembra essere a tutti gli effetti “porta regale” anch’essa, nel mostrarsi come intuizione di verità, passata e futura (…)” – Florenskij, Le porte regali.

Dipinto di Stefania Pinsone.