Le strategie sono di per sé strumenti ideali escogitati per raggiungere un determinato scopo. Per attuarle concretamente occorrono poi tattiche o almeno tatticismi adeguati. Nelle tattiche politiche di solito ci si basa sull’assioma secondo il quale il fine giustifica i mezzi, e logicamente, vorrei dire naturalmente, in questo campo gli italiani, mai dimentichi degli insegnamenti del grande fiorentino (Niccolò, non Dante), primeggiano con irrisoria facilità. Neppure l’arrampicatura su specchi alti come la parete nord dell’Eiger riesce a sgomentarli.
Per garantire il successo tattico alla strategia messa in atto per defenestrare Berlusconi era indispensabile infliggere due gravissime ferite (“vulnera”, plurale di “vulnus”, nel gergo giuridico), una al diritto internazionale, quindi anche italiano, l’altra al regolamento del Senato. Prima ferita, chiara, evidente, manifesta e patente: rendere retroattiva una legge penale, in questo caso la legge Severino.
Seconda ferita, altrettanto chiara, evidente, manifesta e patente: distorcere, arroncigliare, trafiggere e capovolgere il regolamento per trasformare un voto obbligatoriamente segreto in un voto volutamente aperto.
Ad emergere nella valanga di giustificazioni delle storture messe in atto per dar parvenza di legalità e legittimità alle decisioni tattiche messe in atto è stata tale Linda Lanzillotta, una Carneade che si è esibita in un’arrampicata sugli specchi che sarebbe come scalare l’Eiger-Nordwand 4 volte in un giorno. Per degnamente onorare la sua impresa la chiameremo, ma solo per subito dimenticarla, Iperlinda de’ Lanzillotti.
Votando come hanno votato i parlamentari di sinistra (di quelli di Scelta civica, non parlo, per non mettermi in rischio di querela: roba di un Monti salito in discesa e di un Cordero (agnello) di Monteprezzemolo, seduti su una montagna di cocci) si sono inferti una macchia indelebile. Un’altra macchiolina, diciamo un tatuaggio su una natica, gliela hanno inferta i loro dirigenti, che hanno dimostrato, imponendo il voto manifesto a costo di una grave distorsione del regolamento, di ritenerli inaffidabili. Dirigenti che posso però se non giustificare almeno capire avendo saputo, da fonti giornalistiche degne di fede, della trombatura di pochi mesi fa dei candidati ufficiali del PD, di nome “Mortadella” Prodi e Marini, alla presidenza della Repubblica vicina e amica.
Resta, inevasa, una domanda cruciale: per i “compagni” ed i loro accoliti di destra o di centro centrale si è trattato di una vittoria “tout court” o di una vittoria di Pirro? Con le profezie ci si espone a grossi rischi, ma propendo ugualmente per la seconda ipotesi.
Gianfranco Soldati
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