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Psicoanalisi e partecipazione – di Carlo Vivaldi Forti


In molti scritti antichi e recenti ho sostenuto che quella oggi definita crisi economica ciclica è in realtà qualcosa di completamente diverso, e tale incomprensione del fenomeno si presenta come il principale motivo della totale incapacità delle classi politiche a trovare soluzioni adeguate. Con ciò non intendo negare l’evidenza: l’economia traversa una fase di gravissima recessione, ma non in seguito a propria malattia specifica, bensì come effetto secondario di una infezione completa dell’organismo, non curando la quale nessuna speranza di ripresa appare realistica. E’ perfettamente inutile, anzi nocivo, che si alternino al capezzale della grande inferma economisti di grido, fiscalisti, contabili, banchieri e chi più ne ha più ne metta. Per affrontare il problema occorre invece un approccio interdisciplinare che preveda il concorso di tutte le scienze dell’uomo, nessuna esclusa. Fra queste la psicoanalisi, elemento fondante della psicologia sociale e della sociologia.

Da studente ho avuto il grande onore di far parte del gruppo di lavoro di uno dei maggiori psicoanalisti italiani, medico e psichiatra emiliano di chiarissima fama, titolare della cattedra di Psicologia dinamica all’Università di Trento: Franco Fornari. Con lui ho proseguito per qualche tempo la collaborazione, anche dopo la mia laurea e il suo trasferimento alla Statale di Milano. Egli può essere definito a buon diritto uno dei padri nobili della psicologia sociale nel nostro Paese, in quanto la sua intera opera verte sulla comparazione sistematica fra le dinamiche individuali e di gruppo. Un suo celebre saggio, in particolare, sviluppa tale argomento: Psicoanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano 1970. Qualcuno potrebbe erroneamente supporre che i 44 anni trascorsi lo rendano superato e inattuale. Nulla di più falso! Al contrario, mi sentirei di consigliarne la lettura a tutti, in particolare ai giovani , per aiutarli a far luce su quanto sta accadendo oggi e che l’autore aveva previsto con una lucidità da chiaroveggente.

Lo scopo è analizzare la società al tempo della guerra fredda, indagando le ragioni che ponevano il mondo a rischio di sopravvivenza in caso di conflitto nucleare, preoccupazione allora dominante fra gli scienziati, la stessa che aveva indotto Antonino Zichichi ad organizzare i famosi incontri di Erice. La ricerca , malgrado si riferisca a un momento storico oggi superato, entra così in profondità nei meccanismi nascosti e spesso perversi dell’inconscio collettivo, da contenere elementi decisivi per la comprensione delle dinamiche psicosociali in ogni tempo, compreso il nostro. Fornari, da buon psicoanalista, ritiene che la guerra, di qualsiasi tipo e non importa con quali armi combattuta, nasca da un processo di rimozione della colpa da parte del soggetto, che ripete l’ambivalenza infantile nei confronti della madre. L’uomo, cioè, non riuscendo a rimuovere i propri istinti sadico-aggressivi verso il proprio oggetto d’amore, li allontana da sé proiettandoli fantasmaticamente in un nemico esterno, che viene ad essere considerato il vero responsabile del male che può capitare a chi si ama e che ci fa vivere. L’attacco contro questo nemico diventa perciò la forma più alta di dedizione nei confronti della madre simbolica, identificata col proprio gruppo di appartenenza. Tale meccanismo, definito in linguaggio clinico paranoideo, soddisfa la necessità di liberarsi dalla colpa ponendola fuori di sé, e superandola mediante l’uccisione di colui che simbolicamente ne è il depositario. La violenza, che sarebbe normalmente rifiutata dall’individuo se fosse lui stesso a compierla in prima persona, diventa invece accettabile se a perpetrarla è lo Stato sovrano, al quale egli delega la propria eticità e libertà di decidere.

Queste dinamiche rassicurative, secondo Fornari, vengono meno con l’avvento dell’era atomica, che mette in crisi la guerra, o almeno la guerra totale. Infatti, la mutua distruzione assicurata non permette più di distinguere fra la violenza che salva la propria madre-gruppo di appartenenza, e quella che invece la uccide. L’adagio classico mors tua vita mea cessa improvvisamente di valere, trasformandosi in mors tua mors mea. La sola speranza di salvezza risiede dunque nella realizzazione del suo opposto: vita tua vita mea. Per giungere a tanto, però, è indispensabile un ritorno della responsabilità al soggetto, sotto forma di senso di colpa pienamente elaborato e vissuto. L’ambivalenza affettiva nei confronti del proprio oggetto d’amore (madre-gruppo) non può più essere illusoriamente negata alienandola nello Stato e nelle sue strutture. Il meccanismo paranoideo non consegue più lo scopo di liberarci dalla colpa: un altro ne deve prendere il posto, quello depressivo, in quanto riconoscersi colpevoli dei propri istinti sadico-distruttivi non può evitarci una certa dose di sofferenza e di caduta dell’autostima.

Questo, aggiungo all’analisi di Fornari, fotografa esattamente ciò che è avvenuto dopo la caduta dell’impero sovietico. In un mondo bipartito, l’esistenza di un nemico visibile e strutturato ci permetteva di sentirci buoni, in quanto schierati dalla parte giusta, contro quella iniqua dell’avversario. Tale sentimento, assai gratificante, conduceva a forme maniacali di autovalorizzazione e disprezzo per l’altro , e al tempo stesso ci riempiva d’orgoglio per avere scelto l’ideologia e il campo migliori. L’identificazione con il proprio gruppo, rappresentato dallo Stato, dall’Alleanza atlantica, dall’Unione europea, appariva allora a prova di bomba, è proprio il caso di dire!

Con il dissolvimento dei blocchi, questo meccanismo di rassicurazioni, identificazioni e proiezioni è improvvisamente svanito. Trovarsi privi del nemico storico, a cui era così facile e piacevole attribuire la colpa di tutti i nostri guai, ha rappresentato un trauma psicologico e culturale enorme, sia all’est che all’ovest. Vi è stata, questo sì, la riassunzione del senso di colpa di cui scrive Fornari, vissuta nella modalità depressiva. La conseguenza immediata si è manifestata, in Russia, con il periodo anomico di Eltsin , durante il quale la vita era divenuta impossibile, sia sul piano economico, con una miseria mai vista, sia su quello della sicurezza personale, per una serie infinita di delitti, rapine , attentati e sequestri di persona. In Occidente il repentino cambiamento causò, o accentuò in maniera decisiva, una destrutturazione sociale già annunciata da tempo, la quale produsse, oltre al collasso di tutti i valori tradizionali e dei sistemi politici, quella crisi economica di cui ancora non si vede la fine.

La situazione si era fatta, in entrambi gli emisferi, così intollerabile, che la psicologia individuale e collettiva avvertì la necessità di inventarsi un nuovo nemico, al posto di quello appena scomparso. La Russia lo trovò nella restaurazione di una forma di autoritarismo, con Putin, certo assai meno crudele della precedente, ma pur sempre capace di rappresentare un adeguato contenitore delle ansie e della depressione dei cittadini. Qualcosa di simile è avvenuto all’ovest, con la volontaria eutanasia delle classi politiche e la rinuncia alla sovranità degli Stati, delegata di fatto alla mafia finanziaria internazionale, che riveste oggi il medesimo ruolo simbolico di quella nomenklatura sovietica tanto temuta e osteggiata fino al 1989. Quale migliore esempio della resurrezione del padre, per esorcizzare il senso di colpa dei figli che lo avevano ucciso, come afferma Freud in Totem e Tabù?

Di nuovo, (ciò che accade dopo ogni rivoluzione o cambiamento traumatico degli equilibri sociali), si è riprodotto il fenomeno della alienazione, della sovranità del soggetto, in una sovrastruttura di potere, ma stavolta le conseguenze potrebbero essere molto più devastanti delle precedenti. Infatti, non soltanto si tratta di un potere sovranazionale, estraneo al gruppo primario di appartenenza, ma il fatto che esso si identifichi con una oligarchia ristretta di dimensioni planetarie, totalmente irresponsabile e del tutto priva di riferimenti etici all’infuori del puro interesse, lo pone al di là di quella stessa logica contrattualistica da cui nasce lo Stato di Hobbes, di Rousseau e perfino di Freud. A rischio non è più, almeno nell’immediato, la sopravvivenza, bensì la ricaduta dell’umanità nell’orda primitiva, ossia nella barbarie. A questo si aggiungono le drammatiche prospettive della distruzione ambientale, ma poiché si pongono a scadenza differita, l’uomo tende psicoticamente a negarle. L’avvenire si annuncia dunque fosco. Ma come scongiurare questi esiti drammatici?

Fornari sostiene la necessità di una rivoluzione umanistica, che riconduca al soggetto la responsabilità sociale per la salvezza degli altri e del mondo, mediante la trasformazione delle istituzioni della democrazia delegata, nel senso di promuovere una partecipazione diretta del cittadino all’esercizio del potere. Pur senza entrare nel merito delle soluzioni giuridiche, compito estraneo alla psicoanalisi, egli prefigura un modello istituzionale simile alla polis greca, nella quale ciascun uomo presente sull’agorà esercita in prima persona, senza intermediari, la propria quota di sovranità. Afferma: l’unica via per arrivare alla limitazione della sovranità dello Stato sembra dover passare attraverso un’operazione che è insieme OLOCRATICA e OLONOMICA, per cui l’individuo che si risveglia dall’alienazione morale del gruppo e scopre in prima persona la responsabilità della pace e della guerra, evoca a se stesso la sovranità dello Stato per farla evolvere in una eticità individualmente responsabile. Dal momento in cui il soggetto in prima persona riassume su di sé la sovranità e, anziché rimetterla nello Stato, la fa evolvere nelle leggi dell’eticità individuale, lo Stato cessa di essere legibus solutus in quanto sovrano.

L’avvento di una comunità umana autentica, che sostituisca l’attuale società alienata e irresponsabile che ci conduce alla catastrofe, non è qualcosa che somiglia all’anarchia, bensì a quella convivenza armonica che si fonda sulla rappresentanza diretta delle scelte individuali e delle categorie produttive, presupposti di ogni struttura veramente partecipativa. Gli aggettivi che essa assume nel testo di Fornari, olocratica e olonomica, cos’altro rappresentano se non la trasposizione in lingua greca del concetto di Sociocrazia, con cui i miei colleghi olandesi definiscono la Partecipazione totale?

Queste sono alcune delle precondizioni di quella nuova visione del mondo che manca alla maggior parte dei nostri politici, notoriamente privi di spessore intellettuale e di credibilità morale. Mi auguro che queste brevi note contribuiscano a farveli riflettere, nel loro stesso interesse, ma se così non fosse, dovremmo procedere senza di loro e, se necessario, contro di loro.

Carlo Vivaldi-Forti

Relatore

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  • Comprendo gli sforzi di Vivaldi F. nel cercare di convincerci della bontà dei suoi teoremi. Destra, sinistra e centro tutti insieme appassionatamente pròtesi e protèsi della/alla costruzione di una democrazia dal basso.

    Non sono così certo che la cosiddetta “sociocrazia” (ammesso che quella sia la strada giusta) si diffonda presso i popoli affascinati dalla furbizia. Forse in Olanda o in qualche bioma polare potrebbe anche attecchire. Ma immagina, Vivaldi, in certe contrade cresciute a pane e scaltrezza, dove il mito dell’umano “sociale” è indissolubilmente legato al “turlupinare” il prossimo (la netiquette m’impedisce di usare termini più espliciti) fino all’inganno sociale generale già ben oltre la soglia di “mors tua vita mea”. Contrade dove la corruzione, l'intrallazzo, il culto della furbizia soggettiva e “familista” affossa ogni idea di condivisione sociale. "Outsmarting Way of Life" in dilagante diffusione.

    Ecco lì, in questi contesti, andare a parlare e pretendere di “sociocrazia” la vedo dura. Anzi durissima. Roba da inverno nucleare. Lì sì bisognerebbe prima fare una rivoluzione psicosociale preventiva: una precondizione indispensabile prima ancora di una “dêmos” salvifica.

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