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Nel 150° ricordiamo la strage di Torino – di Claudio Martinotti Doria

Un colpo di Stato negli Stati di Savoia nel 1857 – con l’annullamento delle elezioni politiche di quell’anno – permise a Cavour (che non aveva la maggioranza parlamentare) e agli agenti della massoneria internazionale di portare a compimento la rivoluzione italiana nel 1859-60 e di proclamare il Regno d’italia l’anno successivo.

Nel 1864 il sottosegretario agli interni è il napoletano Silvio Spaventa, colui che traghetterà la malavita organizzata nelle stanze del potere. Spaventa è in combutta con le camarille emiliane e toscane (il ministro degli interni è Ubaldino Peruzzi, definito “bandiera dell’antipiemontesismo”) e insieme guidano il tentativo di togliere potere e influenza politica al Piemonte, comunemente avvertito come corpo estraneo alla compagine italiana: il rigorismo subalpino mal si accordava con l’intrallazzatrice e corrotta mentalità italiana.

A questo scopo (bisognava “scoronare Torino”) il trattato che viene ricordato come “Convenzione di Settembre” sottoscritto con Napoleone III contempla una clausola segreta (suggerita dall’emiliano Gioacchino Napoleone Pepoli) che prevede lo spostamento della capitale da Torino a Firenze.

Il governo italiano decide di estromettere il Piemonte dagli affari d’Italia scavando un solco di rancore: provoca l’amor proprio dei Piemontesi, irridendoli attraverso la stampa e incitandoli alla violenza, nel tentativo di esasperare gli animi e influenzare l’opinione pubblica italiana affinché si faccia l’idea che Torino è una città immatura e impreparata ad essere capitale.

Al diffondersi della notizia della firma del trattato la città reagisce, ma, come suo costume, in maniera civile e composta. Non avviene alcuna rivolta.

Allora il governo italiano vieta al consiglio comunale di riunirsi, si escludono tutti i generali piemontesi dal consiglio di difesa, si proibisce la convocazione della Guardia Nazionale (formata da Piemontesi); si fanno affluire le forze armate da tutta italia e si pone Torino in stato di assedio. In questura si esautorano gli ispettori torinesi e li si sostituiscono con milanesi e palermitani. La città è riempita di provocatori giunti da fuori – che non comprendono una parola della lingua dei Piemontesi.

I questurini assalgono, bastonano e arrestano chi manifesta in maniera pacifica, inseguono e malmenano i passanti. Malgrado non vi sia alcun pericolo di incidenti le strade vengono messe in assetto di guerra con ampio spiegamento di soldati, poliziotti e carabinieri.

La situazione degenera la sera del 21 settembre in piazza Castello, quando i carabinieri aprono il fuoco senza motivo su 300 persone in corteo, mirando deliberatamente anche ai monelli che fuggono e ai passanti sotto i portici, uccidendo 12 persone e ferendone un centinaio. La sera successiva la scena si ripete in Piazza San Carlo: i carabinieri sparano all’impazzata sulla folla per cinque minuti di seguito, colpiscono anche alcuni soldati e poliziotti che reagiscono al fuoco. La carneficina prosegue con inseguimenti per le strade. Muoiono in 40 fra uomini, donne incinte e ragazzi di tutto il Piemonte, più di cento i feriti. In quelle ore si parla apertamente di “bombardamento di Torino”.

Il ministro Peruzzi fa promuovere ai prefetti, manifestazioni antipiemontesi in tutta Italia.

Alcuni testimoni che raccontarono e pubblicarono la realtà dei fatti fecero una fine “misteriosa”, inaugurando una tradizione della storia italiana che dura tutt’ora.

L’episodio venne minimizzato e non comparì sui libri di storia.

La toponomastica cittadina non ha mai ricordato quei morti, politicamente imbarazzanti; la grande stele al cimitero generale, meta di commemorazioni ogni anno, sparì senza che nessuno oggi ne ricordi nemmeno i modi e i tempi.

Nessuno ha mai pagato per quella vigliacca strage di inermi cittadini. L’Italia inizia la sua sporca storia con una strage di stato contro i Piemontesi.

cav. dott. Claudio S. Martinotti Doria

Relatore

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