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Ecopop e la ramina selettiva delle favole – di Melitta Jalkanen

Questo articolo, scritto seguendo una linea di pensiero tipicamente ecologista, attacca con forza l’iniziativa Ecopop. Ma venerdì scorso, in occasione della “cena del Blog”, ho incontrato una deputata Verde – l’on. Claudia Crivelli Barella – che si dichiara favorevole a Ecopop. [fdm]

A tutti coloro che sono preoccupati per il futuro della Svizzera, per la perdita di terreni, paesaggi e risorse. Per l’inquinamento, per le condizioni stesse della vita futura. Per l’economia, la stabilità sociale. Consiglio a tutti di leggere l’articolo sull’economia apparso nell’ultimo «Ticinosette» (l’inserto con il programma della TV).

Un’analisi ragionata, lungimirante, sobria. Che non menziona l’iniziativa Ecopop in votazione il 30 novembre, ma spiega la situazione in cui ci troviamo, e gli sviluppi possibili, quelli più desiderabili e quelli non desiderabili.

Cosa che invece l’iniziativa Ecopop non fa. Benché i ragionamenti, le motivazioni, alla base dell’iniziativa siano tutti giusti e reali. Il consumo delle risorse, la pressione demografica, la distruzione del territorio e delle basi della vita. Ma le proposte che fa sono inefficaci, o peggio con effetti contrari a quello che si spera.

Molti credono che chiudendo le frontiere si possa mantenere la ricchezza materiale della Svizzera, senza doverla spartire con altri. Ma nella realtà non funziona così, e i capitalisti di Economiesuisse lo sanno bene. Gli scambi, il movimento, hanno da sempre creato ricchezza materiale. I porti di mare, i porti fluviali prima, i nodi ferroviari poi. Le autostrade. Che ci piaccia o no, questi fenomeni che distruggono territorio, nel modello economico vecchio, di produzione e consumo materiale, portano denaro.

Se vogliamo rallentare la distruzione delle nostre basi vitali, non serve chiudere le frontiere, se manteniamo il modello attuale di economia. Finché l’economia è mirata al profitto in denaro e alla Crescita, incurante dei danni collaterali, le aziende delocalizzeranno, chiameranno ancora più frontalieri là dove non trovano manodopera residente a basso costo, continueranno ad asfaltare e distruggere. Continueranno a farci il lavaggio del cervello dicendoci che la Crescita Economica è un bene e che dobbiamo guadagnare sempre più denaro, per portarlo dritto filato nei centri commerciali, per poi riempire le pattumiere in casa nostra. Oggi, abitando in case grandi il doppio, con riscaldamento, wireless, auto e vacanze, siamo più felici di trent’anni fa ? Se vogliamo vivere sereni, e permettere alle future generazioni di vivere – con aria, terra e acqua e cibo e lavoro e una società stabile – dobbiamo cambiare il modello economico. Non illuderci che con una «ramina» selettiva intorno alla Svizzera difendiamo il territorio e la società. Una «ramina» che permette l’entrata delle cose che ci piacciono ma tiene fuori le cose antipatiche ?

Quella «ramina» esiste solo nelle favole. Dobbiamo uscire dalla schiavitù del dogma della Crescita Economica all’infinito, che in uno spazio finito (il Pianeta Terra) non è possibile. Dobbiamo riconvertire la nostra economia in maniera che possa servirci nel mondo di oggi e di domani. Il modello vecchio funzionava quando eravamo tanto poveri che non consumavamo niente. Oggi siamo sempre dei poveracci però consumiamo territorio e risorse come se fossimo ricchissimi e come se il territorio e le risorse fossero infiniti.

Dobbiamo cambiare il modello economico, se vogliamo trovare un equilibrio e sperare nel futuro. Le proposte ci sono. Anche grazie alla decennale azione dei movimenti ecologisti, il Consiglio Federale ha un programma realistico. Da sostenere.

Melitta Jalkanen. Ruvigliana

Relatore

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  • Leggendo l’articolo della sig.ra Jalkanen mi è sorta la seguente domanda che non è direttamente legata allo scritto, ma è tuttavia relativa ad alcuni concetti espressi: una regione, una città, un Paese, possono, sono in grado di cambiare il corso del loro destino economico in autonomia, da soli, senza le necessarie alleanze?

    Come leggere le diverse (poche per la verità) iniziative locali tendenti a voler migliorare, cambiare, frenare gli avvenimenti ritenuti negativi e innescare una transizione, (un'alternativa) diciamo, positiva? Non sto pensando alle innocue iniziative tendenti a frenare il frontalierato. Sto pensando in grande. Penso a una trasformazione -tout court- della nostra economia.

    Dall'econo(m)ia obsoleta

    … del terziario immobiliare dopato, dei rustici di reddito residui, degli appartamenti alto standing per globalisti ed affini, degli orrendi capannoni della fiscalità delocalizzata, dei centri shopping ad alto consumo importato, delle fiduciarie ormai orfane del segreto bancario...

    all'econo-mia di un rilancio alternativo indigeno.

    Poniamo che si accettino alcune idee suggerite in larga misura dai movimenti ecologisti e cioè -per esempio- quella di rilocalizzare alcune produzioni per il consumo indigeno. Poniamo di lanciare (rilanciare) un programma di riconversione ecologica e innovativa degli edifici energivori . Di rivedere l'intero comparto dei trasporti pubblici in chiave di efficienza e di risparmio energetico. Di riconsiderare i sitemi di riscaldamento pubblici e privati. Favorire le cosiddette fonti energetiche alternative: il cippato locale magari, il teleriscaldamento, i convettori solari. Esplorare la possibilità di consumi (agricoltura e prodotti indigeni) a km zero. Rivedere la politica del turismo in chiave alternativa: ritracciare e riorganizzare i percorsi e i sentieri turistici finalizzati anche alla riscoperta dei tanti (negletti) monumenti di rilievo storico-artistico, ridefinire le piste ciclabili veramente ciclabili, incrementare i percorsi pedonali a lago, eccetera. Ri-diventare, in altri termini, "giardineri" di un… belcantone a impatto zero. Finalmente prendersi cura della nostra terra. Anche in funzione di un richiamo turistico "eco-convertito". Una scelta pionieristica, probabilmente pure redditizia (in termini… economici) a lungo termine. Sicuramente fondamentale per quelli… dopo di noi.

    La volontà di arrivare ad un "consumo" intelligente" è fortemente osteggiata dalle oligarchie finanziarie che, demagogicamente, sventolano (e fanno sventolare) la bandiera dell'impossibilità di riduzione del famigerato Pil. Una vera religione che ci ha sottomesso da almeno tre decenni a facili dogmi, e soprattutto a scorciatoie di ricavi ormai incamerati da una ridotta percentuale di soggetti. Che dire poi della hýbris economica che ci costringe alla sua rappresentazione pericolosamente dogmatica e semplificata della vita sul pianeta: cioè l’obbligo di crescita della produzione del Pil (unità di misura ormai superata) per mezzo del consumo irresponsabile . E con l'economia dis- "integrata", sorride pure chi trae profitto dall'obsoleto status-quo cantonale.

    Sa (sanno) quanto sia necessario e difficile "autoimporci" un cambiamento di paradigma, una nuova grammatica, una convincente strategia argomentativa che sappia opporsi all'indotta narcolessia mediatico-economicistica. Quindi sa (sanno) quanto tutto ciò possa somigliare ad un'utopia.

    In breve: una sola comunità, determinata che sia, può mostrarsi ad esempio? Servire da laboratorio? I rischi non sono troppo elevati? I costi di transizione non scoraggeranno ogni iniziativa? La demagogia mercantile accetterà tale rincoversione?

    Personalmente sempre più convinto, anche per le ragioni indicate, che una convinzione "locale" serva sostanzialmente (unicamente) per una mobilitazione "globale".

    Se si vuole cambiare bisogna essere convinti e convincenti, preparati e solidali. Soprattutto tanti, ma così tanti da formare… una lobby influente. Una comunità di trecentomila abitanti, metà dei quali appagati dalle comodità del presente, non credo sia in grado di andare lontano.

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