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Suicidio assistito – L’art. 115 sotto la lente dell’analisi – di Ares Bernasconi

DeathDeathalcuni anni fa

Questa mattina vedo un help! sulla mia messaggeria e vedo che si tratta del mio professore di matematica di liceo, che mi chiede un commento “sintetico” sull’art. 115 del Codice penale (CP).

Non è facile descrivere brevemente un articolo di legge così delicato anche sotto il profilo etico e morale, poiché ci si può trovare ideologicamente schierati. La dottrina giuridica ha prodotto numerosi scritti e riflessioni sul tema. La giurisprudenza per contro, soprattutto del Tribunale federale, si è chinata raramente sui risvolti penali dell’aiuto al suicidio. Mi limiterò giocoforza a un’illustrazione parziale con alcuni spunti di riflessione.

È bene premettere che la vita è il bene giuridico verosimilmente più importante e più protetto dal diritto penale, tanto che il Codice penale vi consacra ben sette articoli (art. 111-117 CP). L’omicidio, nella forma aggravata dell’assassinio, permette di comminare peraltro la pena detentiva a vita, la massima pena prevista nel nostro ordinamento legale. Diversamente da altri reati, l’omicidio è punito in tutte le sue forme, anche per negligenza (art. 117 CP) o per semplici atti preparatori (art. 260bis cpv. 1 lett. a e b CP).

Fra gli articoli consacrati all’omicidio, v’è infatti l’art. 115 CP intitolato “istigazione e aiuto al suicidio”, che recita:

Chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.

Alla sola lettura si vede subito che il legislatore ha voluto penalizzare soltanto parzialmente l’aiuto al suicidio. Proprio questa penalizzazione non integrale permette in un certo senso in Svizzera, diversamente da altri Stati, di far capo più facilmente al suicidio assistito.

Nell’ordinamento svizzero l’istigazione e l’aiuto al suicidio è punibile penalmente soltanto se cumulativamente in primo luogo l’autore del reato agisce per “motivi egoistici” e in secondo luogo se il suicidio è per lo meno tentato. Nell’eventualità del suicidio assistito, essendo il suicidio compiuto, decisivo è sapere quindi se l’autore (ossia chi ha prestato il proprio aiuto) abbia agito per “motivi egoistici”.

Il Codice penale non dà una definizione di motivi egoistici. La dottrina ritiene che si è in presenza di un motivo egostico se l’autore tenta di soddisfare, prestando il suo aiuto al suicidio, interessi personali di natura materiale o affettiva. Un sentimento di indifferenza non è sufficiente per essere ritenuti colpevoli. Dal profilo materiale il reato si rapporta con la cupidigia, chi presta aiuto al suicidio deve già compiere il suo operato, sapendo ad esempio di toccare l’eredità della persona defunta o liberarsi di un obbligo legale (di mantenimento o di assistenza) con il decesso dell’interessato. Sotto il profilo affettivo, un aiuto al suicidio con un sentimento di odio o vendetta realizza il reato penale. Il diritto penale non entra sempre in gioco, ma soltanto a un certo livello di gravità. È la ragione per cui nella prassi giudiziaria l’art. 115 CP non ha una gran valenza.

V’è però un altro aspetto di cui l’art. 115 CP non parla e merita di essere accennato. Dal profilo tecnico l’art. 115 CP si distingue dalle altre forme di reato contro la vita (per esempio l’omicidio intenzionale), poiché l’autore di questo reato non compie lui stesso (per intenzione o negligenza) l’uccisione di una persona. In altre parole, la dominanza della situazione e degli eventi, i quali in definitiva provocano la fine di una vita, non è in mano all’autore del reato, ma alla vittima. È la vittima che decide di mettere fine ai suoi giorni e si rivela in definitiva l’ “autrice” della propria morte. L’art. 115 CP presuppone implicitamente che chi chiede aiuto al suicidio sia capace di discernimento e che sia in grado di capire il significato degli eventi, i quali lo condurranno verso la morte e decidere in piena libertà di mettere fine ai suoi giorni. In caso contrario, l’interessato non sarebbe autore della propria morte e le sue azioni non possono essere qualificate come “suicidio” nel senso dell’art. 115 CP e l’ “aiuto” si rivela essere invece un omicidio (intenzionale o per negligenza).

È proprio su questo sottile spartiacque che nel 2009 il Tribunale federale ha dovuto confrontarsi con il caso di un noto psichiatra basilese, (sentenza 6B_48/2009 dell’11 giugno 2009; reperibile qui) il quale accompagnava al suicidio persone affette da malattie psichiche.

Ares Bernasconi, giurista

Relatore

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