(dal “Paese”, editoriale)
Dal sessantotto a oggi, la regola è ormai sempre: la scuola deve insegnare quello che vogliono gli studenti, questi devono essere coinvolti nei programmi d’insegnamento, devono andare volentieri a scuola, inoltre non deve esserci alcuna selettività, tutti devono poter accedere a tutto. Mi permetto di contestare tutti questi punti. Primo, se come allievo dell’allora ginnasio avessi potuto scegliere l’insegnamento, sicuramente non avrei optato per la matematica o il tedesco. La mia scelta – errata, ma molto più divertente – sarebbe caduta su ogni tipo di gioco, qualche sport e sull’introduzione al sesso (di tipo rigorosamente eterosessuale) per il quale sì, avrei gradito perfino la sperimentazione, precorrendo Bertoli di oltre mezzo secolo. Lo stesso dicasi per il coinvolgimento nei programmi d’insegnamento. Se a quindici anni non sono in grado di decidere il mio futuro – e su questo spero siamo tutti d’accordo – non vedo perché dovrei influenzare in qualche modo, dall’alto della mia totale ignoranza, l’istruzione che mi deve essere fornita. È semmai l’insegnamento che deve orientare il giovane nella scelta del suo futuro, non viceversa. Terzo, perché mai i giovani dovrebbero andare volentieri a scuola? Se oggi succede, verosimilmente è proprio perché vengono loro insegnate delle cose che loro piacciono. Ma permettetemi di osservare che ciò che piace a un ragazzino fra i 6 e i 15 anni, difficilmente ha a che vedere con le necessità che avrà da adulto. Francamente, io ho sempre odiato andare a scuola proprio perché mi dovevo forzatamente impegnare su cose che mi erano totalmente indifferenti, ma che oggi sono ben felice che mi siano state inculcate. L’eliminazione di qualsiasi selettività, che è il cavallo di battaglia della “Scuola che verrà” di Bertoli – lui la chiama “inclusione” – è un errore di principio. Essa offre solo due scenari da considerare singolarmente o insieme: o si fa perdere un sacco di tempo (con relativa perdita di motivazione) ai più dotati, obbligandoli a rallentare il loro apprendimento per aspettare gli “inclusi a ogni costo” – con relativo costoso gonfiamento dell’apparato insegnante – oppure si abbassano i paletti per accedere ai livelli successivi, cosa peraltro sperimentata in Francia a livello universitario, con aumento dei laureati ma crollo della loro qualità.
Oggi, le “passerelle” fra tirocinio e studi superiori – delle quali non sono un sostenitore particolarmente entusiasta – permettono già, a condizione di averne le capacità, di continuare la propria formazione fino a raggiungere i livelli più alti. Ma che tutti debbano poter accedere a tutto è una forzatura assurda. Al di là delle ambizioni, spesso più dei genitori che degli studenti, non c’è nulla di vergognoso nello scegliere un mestiere invece di un titolo universitario. Un artigiano è degno del massimo rispetto quanto un medico o un avvocato.
Sarò anche un vecchio reazionario, ma ho quella che purtroppo è ormai un’utopia: sì, se fosse possibile vorrei che si tornasse al magari nozionistico, ma sperimentato, sistema del ginnasio e della scuola maggiore.
Ora, è vero che la scuola necessita di qualche cambiamento ma forse, se non ci fosse stato il ’68, ce ne vorrebbe qualcuno meno. Il guaio è che le modifiche succedutesi negli anni sono state tutte di stampo ideologico, e non da meno è la sperimentazione proposta da Manuele Bertoli. È ora di smetterla e di studiare qualcosa che ponga dei correttivi senza mettere a rischio il futuro di alcune migliaia di potenziali “vittime” qualora la sperimentazione fallisse.
Di ’68 uno basta e avanza. Basta con le sperimentazioni avventate, NO alla “Scuola che verrà”.
Eros N. Mellini
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