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È vero, come si dice, che non saranno certo i confini ad arrestare “il virus”, e lo si afferma probabilmente anche per mettere in definitiva “quarantena” quell’obsoleto concetto di «nazione»: fastidioso antagonista al “modello rappresentativo del capitale apolide”.
Insomma quella “condizione territoriale, politica e umana” dal prefisso contaminato da un passato impresentabile, è pure considerata - da circa un trentennio - ostile alle seppur fragili, parziali e disordinate crescite mercantili globali. Tuttavia sembrerebbe - contro ogni realistico pronostico - che la «nazione» con tanto di frontiere, confini, controlli e controllati sia riapparsa come da prognosi ..."populista", nel pandemico linguaggio globalizzato.
Anche perché i drammatici conteggi quotidianamente enfatizzati vengono registrati e comunicati per distretti ...nazionalmente distinti. Ovvio poi, che ogni «comprensorio nazionale», si preoccupi essenzialmente di mostrare i propri “numeri” quando si risolvono positivamente e mondializzarli quando sono penalizzanti: ciò che fa sorgere seri dubbi sulla seducente e imperturbabile narrazione delle comunità cooperanti.
Inoltre il cosiddetto culto della libertà individuale (assai marginale quest’ultima), fa si che il lavoratore/consumatore/cittadino e… paziente infetto o semplice portatore, rimangano… isolati nella loro “solitudine del cittadino globale”. Isolati, tuttavia, dentro i propri confini. Confinati, insomma.
Per contro la retorica deborda oltre ogni limite. Leggo su un settimanale ritenuto “progressista” che (…) “Il virus del rancore sarà sempre vivo se non cogliamo questa occasione per «diventare» (sic!) una “nazione” matura e coesa, civile e coraggiosa. Una “nazione” (ri-eccola) non è solo le sue industrie o le sue autostrade, è anche la sua lealtà, la sua tenuta.” (ri-sic!). Detto tra noi, pare perfino difficile situare cronologicamente attuale, questa suggestione da dialettica novecentesca.
Infine si potrebbe supporre che lo zenit dell’umana avventura (dopo tanto {accademico} dibattere) resti pur sempre (anche/soprattutto nelle calamità) fermamente posizionato in quel territorio »nazionale« che la dialettica delle varie “governance” lo vorrebbe invece radiato dal lessico…sovrano. Almeno così sembrerebbe.