Non è finita qui. non per il “Sultano”, almeno. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha infatti dichiarato “Il fatto che l’Azerbaigian abbia liberato le sue terre dall’occupazione dell’Armenia non significa che la lotta sia finita”.
Il suo discorso alla “Parata della vittoria” a Baku, organizzata dopo la tregua siglata in Nagorno-Karabakh, è di tenore nazionalistico, e patriottico mussulmano.
“Abbiamo aperto una nuova era. Per trent’anni il Karabakh è stata una ferita nei nostri cuori. Oggi condividiamo la gioia di aver curato questa ferita” ha continuato Erdogan. “La lotta politica e militare proseguirà su molti altri fronti finché Turchia e Azerbaigian saranno fianco a fianco, supereranno ogni difficoltà e andranno di successo in successo.”
Nella capitale dell’Azerbaigian, la Turchia ha celebrato – con sfilata di trofei militari armeni – la fine del conflitto in Nagorno-Karabakh. Alla sfilata turca, emblema del patriottismo islamico, erano presenti più di tremila soldati e i trofei armeni consistevano in più di 150 pezzi di equipaggiamento di tecnologia armena, catturati durante la guerra nel Caucaso, trasportati su semirimorchi.
Il “Sultano”, come ormai lo chiamano in molti media, per aver reso la Turchia covo dei Fratelli Mussulmani, ha poi chiamato il presidente azero Ilham Aliyev suo “fratello”, accusando, invece, l’Armenia di essersi fatta “incoraggiare dagli imperialisti occidentali”. Il presidente turco ha poi auspicato che l’Armenia “ritrovi la ragione”.
Aliyev ha ringraziato Ankara, per il sostegno ricevuto dalla Turchia in quella che egli ha definito una “guerra patriottica in Karabakh”.
Mosca aveva mediato l’accordo di pace con l’Azerbaigian, per evitare altri morti (che erano stati diverse migliaia), e porre fine a sei settimane di guerra nella regione contesa.
L’Armenia è stata costretta dalla sorte delle armi a cedere tre distretti a Baku, oltre a quattro altre aree controllate dai separatisti armeni dagli anni ’90.
Erdogan continua a vincere, e fa paura a molti. Ma, forse, fa ancor più paura il silenzio sulle sue vittorie, che non devono passare inosservate.
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