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Hong Kong: verso la “normalizzazione” . di Vittorio Volpi

La spinta cinese a “normalizzare” Hong Kong sta sempre più prendendo consistenza. Si scava sempre più profondamente il fossato che divide chi è pro Pechino e chi invece ha deciso di andarsene o di rimanere obtorto collo.

immagine Pixabay

Interessante il caso della giapponese SBI Holding, il conglomerato nipponico che controlla la società di brokeraggio (omonima) online che sta diventando una potenza nel Sol Levante.

Nelle dichiarazioni del suo presidente Yoshitaka Kitao si apprende della decisione di chiudere l’attività ad Hong Kong per i seguenti motivi: la controversa legge sulla sicurezza nazionale (made in Beijin) imposta ad Honk Kong, ex colonia britannica, in contravvenzione con gli accordi del 1997 con il Regno Unito (sotto il cappello “un paese due sistemi”) e gli arresti dei 47 attivisti che ha creato nel top management nipponico molta apprensione.

“Hong Kong non è una location più valida per istituzioni finanziarie (internazionali)” ed ha aggiunto, interessante, che stanno guardando a Singapore o Shanghai come alternative. Perché Shanghai che è in Cina? “Se voglio fare business con la Cina stabilirei un’attività a Pechino o Shanghai”, con ciò volendo dire che se deve sottostare a normative cinesi meglio andare direttamente in Cina ( meglio andare direttamente nella bocca del leone).

Il che significa anche dire che Hong Kong è ora meno necessaria come porta di ingresso verso la Cina, il suo importante ruolo è del passato. 

Ma così non pensano colossi come “Swire” che non sono preoccupati del cambio di passo nella “provincia” cinese di Hong Kong.  Essi ritengono le decisioni di Pechino indispensabili per salvare la grande piazza finanziaria e di trading  per mantenere l’ordine.

Per riassumere gli avvenimenti, ricordiamo che Pechino per reagire alle sempre più pressanti dimostrazioni dello scorso anno che invocavano il mantenimento dell’assetto democratico (50 anni dal ’97) ha introdotto una “legge di sicurezza” nazionale sgradita a molta parte della popolazione. In seguito le elezioni del “District Council” che hanno assegnato la vittoria ai democratici con l’85% dei seggi. Come reazione e preoccupato, Pechino ha fatto sospendere le elezioni per il “Legislative Council”, una specie di parlamento, rimandando le sue elezioni al 2022, ma con regole diverse.

I candidati ai seggi, quelli dove i democratici potrebbero incidere, saranno ridotti di numero e per la loro selezione verrà creato un “Election Committee”, ovviamente scelto ad hoc, che avrà il compito di segnalare i candidati.

Si sa già, anche se i dettagli della riforma non sono ancora noti, che per essere approvati ci sarà il criterio di fedeltà a Pechino. Saranno candidati eleggibili solo i patrioti cinesi, giurando fedeltà al Partito Comunista. Il altre parole, Hong Kong sembra avviata verso una “strada senza ritorno”. Un’integrazione di fatto più veloce rispetto ai patti.

Non sarà però una strada senza buche: in primis l’ostilità inglese che si trova di fronte ad un accordo internazionale non rispettato. Ha commentato Chris Patten (ultimo Governatore britannico della ex colonia): “La legge imposta sulla sicurezza nazionale è il maggior passo mosso finora per annientare la libertà di Hong Kong”.

Anche la nuova amministrazione Biden non chiuderà gli occhi su ciò che sta avvenendo ad Hong Kong. Rispetto a Trump, Biden sarà meno miope di fronte alla violazione dei diritti umani.

Quello che è certo, anche se Hong Kong nonostante tutto continuerà ad occupare una posizione di rilievo nella finanza e commercio internazionale, è che non avrà più quel ruolo privilegiato di “porta principale per la Cina” che l’ha caratterizzata e che ha creato così tanta prosperità. In fondo è ora una regione cinese a statuto “sempre meno speciale”.

Vittorio Volpi

Relatore

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