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Giuseppe Taliercio. Quando la vittima è più forte dei carnefici

del professor Pietro Ichino

www.pietroichino.it

Distrussero le sue lettere per non rendere pubblica la propria sconfitta – La sua serenità seminò nelle menti dei carcerieri il germe di un pentimento che sarebbe maturato a distanza di tempo

A Carrara e a Venezia in questi giorni si ricordano, a 40 anni di distanza, il sequestro e l’assassinio di Giuseppe Taliercio a opera delle Brigate Rosse. Padre di cinque figli e direttore del Petrolchimico di Marghera, Taliercio era persona buona, mite e profondamente credente. Sopportò con grande dignità i 47 giorni durante i quali venne tenuto incatenato a una branda dentro una tenda collocata in una casa isolata nei pressi di Udine.

Ora un bel libro di Pierluigi Vito (I prigionieri, Augh Edizioni, 2021 ), frutto di una ricerca storica minuziosa e di un lavoro esemplare di scavo nella psicologia dei protagonisti della vicenda, racconta il paradosso della serenità del prigioniero contrapposta alla pessima coscienza dei carcerieri. Che cosa lo rendeva, nella sua apparente debolezza, tanto più forte di loro? La coscienza che nulla del suo sacrificio sarebbe stato vano, nulla sarebbe andato perduto: in questo sta l’essenza della fede cristiana fondata sulla memoria dell’ultima cena, che non è teoria filosofica ma esperienza viva di resurrezione, di contatto con l’eterno.

La sua serenità seminò nelle menti dei carcerieri il germe di un pentimento che sarebbe maturato a distanza di tempo. Saranno essi stessi a darne conto anni dopo, usciti dall’inferno che avevano progettato per la loro vittima, ma nel quale in realtà si erano cacciati loro. Durante il processo i brigatisti avevano detto che era stato lui a distruggere le lettere che aveva scritto a sua moglie e alle altre persone care durante la prigionia; ma tutto induce a pensare che in realtà siano stati essi stessi a farlo, rendendosi conto che il diffonderle avrebbe certificato la vittoria della vittima designata, la loro sconfitta.

Quattro anni dopo, dal carcere dove stava scontando la pena, Antonio Savasta scrisse alla moglie di Giuseppe Taliercio: “Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita, e io […] non capivo dove prendesse la forza […] la parola di suo marito […] è stata un seme così potente, che nemmeno io, che lottavo contro, sono riuscito a estinguere in me”.

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