Adolf Hitler era salito al governo il 30 gennaio 1933, il presidente del Reich lo aveva nominato. Da principio non voleva, il vecchio feldmaresciallo Paul von Hindenburg. Aveva detto: “Quel caporale boemo, cancelliere?, mai! Al massimo lo farò ministro delle Poste, così potrà leccarmi i francobolli”. Non l’avesse mai detto, gli toccò cedere. La sua mente di ultraottantenne, indebolita, già vacillava. Il caporale boemo con i suoi nazisti – con Göring e Goebbels e Röhm e altri ancora – si prese allora il titolo che fu di Bismarck – e incominciò la cavalcata folle che avrebbe portato la Germania all’estrema rovina.
La sera del 27 febbraio 1933 il cancelliere Hitler era invitato a cena in casa Goebbels, a Berlino. L’atmosfera era distesa e si suonavano dischi al grammofono. All’improvviso squilla il telefono, è il dottor Hanfstängl: “Il Reichstag è in fiamme!”
Hitler e Goebbels si precipitarono in macchina “a 60 chilometri all’ora lungo la Charlottenburger Chaussee” verso il palazzo, già totalmente invaso dal fuoco. Anche Hermann Göring era sul posto. “Questo è un crimine comunista diretto contro il nuovo governo! Saremo senza pietà. Ogni funzionario comunista dovrà essere fucilato sul posto! Ogni deputato comunista dovrà essere impiccato, questa notte stessa!”
Marinus van der Lubbe – colpevole o innocente che fosse, o, semplicemente, strumento dei nazisti – fu processato e condannato senza pietà. Il 10 gennaio 1934 la sentenza fu eseguita, mediante decapitazione.
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