Nell’ultima pagina del romanzo (Trionfo della morte, 1894) i due amanti, Giorgio e Ippolita, giungono al sommo di una scogliera, dove uno stretto terreno pianeggiante è disseminato di ulivi. Giorgio ha già deciso (“incalzato dalla necessità dell’atto”), Ippolita non sospetta ancora. Il cane Giardino li segue e gironzola attorno a loro. È notte e l’Adriatico, ai piedi dell’abisso, è una presenza nera e possente.
Ella pareva colpita dal suono insolito della voce di Giorgio; e un vago sbigottimento cominciava a invaderla.
– Ma vieni!
Ed egli le si appressò con le mani tese. Rapidamente l’afferrò per i polsi, la trascinò per un piccolo tratto; poi la strinse tra le braccia, con un balzo, tentando di piegarla verso l’abisso.
– No, no, no…
Con uno sforzo rabbioso ella resistette, si divincolò, riuscì a liberarsi, saltò indietro anelando e tremando.
– Sei pazzo? – gridò con l’ira nella gola. – Sei pazzo?
– No, no, Giorgio! Lasciami! Lasciami! Ancóra un minuto! Ascolta! Ascolta! Un minuto! Voglio dirti…
Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. Sperava di trattenerlo, d’impietosirlo.
– Un minuto! Ascolta! Ti amo! Perdonami! Perdonami!
Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte.
– Assassino! – urlò allora furibonda.
E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera.
– Assassino! – urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l’orlo dell’abisso, perduta.
Il cane latrava contro il viluppo.
Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo.
E precipitarono nella morte avvinti.
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