Primo piano

Donald i brogli dovrà provarli. Vi dico solo, per ora, perché sono plausibili – di Paolo Camillo Minotti

Ecco perché secondo me le accuse di Trump ai Democratici sono perlomeno plausibili

Foto Pixabay

A proposito di brogli ed elezioni americane: ci sono dei precedenti famosi…

Nella notte tra il 5 e il 6 novembre scorso ho ascoltato sulla tv La7, nell’ambito del programma condotto da Marco Formigli “Piazza pulita”, la dichiarazione del presidente Donald Trump che in modo molto netto e circostanziato ha denunciato i palesi o sospetti tentativi di brogli elettorali commessi in alcuni Stati dalla “macchina elettorale” e dagli attivisti del Partito Democratico. Dico subito che il discorso mi è sembrato abbastanza convincente, perché perlomeno plausibile nel contenuto e misurato nel tono, senza tralignamenti sopra le righe. Dei dettagli dirò più avanti. Mi preme però dire che una cosa mi ha colpito soprattutto: il suo coraggio.
Sì, perché si è trattato di una dichiarazione coraggiosa: per far capire cosa intendo dire devo fare una digressione e andare indietro di parecchi decenni, facendo un paragone con alcuni casi noti di veri o presunti brogli elettorali del passato. In effetti dopo aver ascoltato Trump, per associazione di idee mi sono subito venuti in mente due casi famosi: il primo è quello dei brogli di Chicago in occasione delle presidenziali americane del 1960, che permisero la vittoria di Kennedy su Nixon; il secondo è quello del referendum istituzionale fra monarchia e repubblica nel 1946 in Italia. Diciamo subito che in tutti e due quei casi, né il candidato e vicepresidente uscente Nixon né Re Umberto II ebbero il coraggio di denunciare pubblicamente a chiare lettere i brogli, né tantomeno di acconciarsi a contestarli fino alle ultime conseguenze. Un compianto presidente dell’UDC Ticino mi disse una volta che essi “non ebbero le palle per andare fino in fondo” e sicuramente avrebbe apprezzato il coraggio di “The Donald”……

Le possibilità di broglio sono variegate

Ora alcune annotazioni nel merito della questione. Naturalmente io non so se e soprattutto in quale misura i Democratici abbiano commesso delle irregolarità (ritenuto che una piccola dose di irregolarità episodiche siano da considerarsi fisiologiche, non essendo l’essere umano immune da comportamenti scorretti). Per evitare nel limite del possibile (o comunque ridurre a casi molto rari) i brogli elettorali, i fattori decisivi sono l’efficienza organizzativa nonché la trasparenza e il controllo bipartisan di tutte le procedure di voto, al fine di assicurare la segretezza del voto e impedire al contempo che possano avvenire manipolazioni illegali delle schede. La fiducia infatti è una buona cosa, ma la sicurezza e il controllo della correttezza delle procedure sono sempre meglio; se non c’è una prassi di controlli rigorosi e di protocolli accuratamente rispettati, il singolo individuo (o un gruppo di individui) possono essere tentati di “corriger la fortune” cioè di favorire il partito o il candidato da essi prediletto. Lo si può fare in svariati modi; faccio solo qualche esempio: se si vota durante più giorni e le schede restano nell’urna durante la notte nel locale del seggio elettorale, possono venire sostituite le schede nell’urna nottetempo, togliendo le schede effettivamente votate e sostituendole con un egual numero di schede ma di segno diverso (per esempio tutte del partito che si vuole far vincere o, anche trasversalmente ai partiti, tutte portanti un voto personale a un determinato o a determinati candidati).

Un broglio famoso nel Lazio una trentina d’anni fa

Una trentina d’anni fa ci fu un caso famoso a Roma (parliamo dell’Italia non per carità della nostra patria, ma perché la stampa italiana ne parlò così tanto che la cosa mi restò impressa nella memoria) di falsificazione massiccia delle preferenze nelle elezioni politiche e regionali, che poi influì parecchio di lì a qualche tempo nel fare approvare l’abolizione delle preferenze e l’introduzione del sistema maggioritario uninominale per l’elezione del parlamento. In poche parole il sistema funzionava nel modo seguente: il bureau di voto o l’ufficio comunale designato alla conta dei voti, formato dai rappresentanti dei vari partiti più qualche impiegato comunale, dapprima faceva lo spoglio delle schede di partito in modo corretto (o almeno si spera), poi d’accordo fra tutti i partiti presenti le schede di ciascun partito venivano date in mano ai rappresentanti del medesimo i quali diligentemente completavano le schede, aggiungendo le preferenze personali all’interno del partito (il panachage in Italia non era ammesso) come da ordini ricevuti della sezione locale del partito o dal leader più influente nella regione…..Durante il processo, alcuni imputati ebbero il candore di rispondere al pubblico ministero che li interrogava, affermando di non aver fatto nulla di male “perché non falsificavano le schede di partito, ma solo i voti personali”. Quel caso mostrò che ci può essere una complicità di un gruppo relativamente esteso di persone nel commettere un broglio, purché tutti i partecipanti all’operazione ci vedano un vantaggio per sé (o non ci vedano uno svantaggio per il proprio partito). Un amico e collega di Gran Consiglio mi disse una ventina di anni fa che qualcosa del genere in certi Comuni avveniva anche in Ticino in occasione delle elezioni per il Gran Consiglio, ma non fu mai denunciato appunto per le ragioni esposte dal citato imputato di Roma: falsificando solo i voti preferenziali e non toccando la ripartizione partitica, i rappresentanti dei due o tre partiti comunali presenti non vi trovavano niente di riprovevole….
La probabilità di brogli aumenta ancora di più nel caso di votazioni tematiche molto sentite e controverse (come sono frequenti nella democrazia diretta svizzera), soprattutto qualora il tema in votazione trovi sulla stessa posizione i rappresentanti dei diversi partiti presenti nell’ufficio di voto. E a maggior ragione se il broglio elettorale ha qualche chance di determinare l’esito del voto (quindi più si scende di livello: dal piano federale, a quello cantonale, a quello comunale, e più la tentazione di falsificazione del voto può crescere). Ebbi modo io stesso in una votazione comunale a Bellinzona nel 1997 (in occasione della votazione sui semisvincoli) di assistere a un sospetto broglio, che in un primo tempo segnalai all’autorità di vigilanza, ma poi – a seguito del risultato per me tutto sommato soddisfacente del turno finale di votazione, quando il controprogetto del Municipio fu respinto – ritirai la denuncia.

Il voto per corrispondenza = licenza di frodi elettorali

Gli eventuali brogli denunciati da Trump e dai Repubblicani americani sono di natura diversa da quello citato di Roma. Negli USA non ci sono certamente interessi convergenti fra i due partiti contrapposti, che quindi teoricamente dovrebbero controllarsi l’un l’altro! Teoricamente, e perlomeno all’atto dello spoglio delle schede. E questo a condizione che le misure di sicurezza e i protocolli al fine di rispettare la correttezza del voto siano rigorosamente rispettati anche “a monte”. Mi spiego: non ho dubbi che i voti per corrispondenza conteggiati dopo quelli in presenza – e che in Pennsilvania e in Georgia e altrove hanno rovesciato l’esito del voto a favore di Biden -, fossero in buona maggioranza per i Democratici e che siano anche stati contati giusti. Ma un voto può essere contato correttamente, ma essere ugualmente abusivo e scorretto. Per esempio: può essere stato spedito non dalla persona interessata e iscritta in catalogo, ma da qualcuno che ha fatto incetta in un modo o nell’altro (sia rubandolo sia acquistandolo o facendoselo dare) del materiale di voto di persone che solitamente non votano. Casi di questo genere sono avvenuti qualche anno fa anche in vari Cantoni della Svizzera interna (fra cui il Canton Berna dove l’autore dell’operazione di incetta di 20 o 30 schede fu condannato) e anche in altri Paesi europei; e naturalmente sono possibili solo da quando è stato introdotto il voto per corrispondenza. Il voto per corrispondenza, appunto: questo è il grosso dubbio che plana sulla correttezza delle elezioni americane. Negli USA esso esiste da molti anni, ma nel passato veniva utilizzato da una piccola minoranza, in genere da gente che per motivi validi (malattia, assenza all’estero per lavoro il giorno dell’elezione, ecc.) non poteva recarsi al seggio elettorale. Già nelle ultime tornate esso è andato aumentando. Ma stavolta ha votato per corrispondenza addirittura la maggioranza dei votanti (almeno 80 milioni di persone, se non addirittura 100, da quel che abbiamo sentito dalle varie tivù). Ora è evidente che più aumenta il numero di chi vota per corrispondenza, più aumenta anche il rischio di frode o falsificazione.

Infatti, da quel che ho capito seguendo certi talk-show, negli USA (o comunque in certi Stati, perché le regole e la prassi elettorale sono diverse da Stato a Stato) non c’è l’invio in doppia busta come vige qui da noi, che dovrebbe tendenzialmente garantire una parvenza di segretezza e correttezza del voto (quantunque, ripeto, non si possano escludere manipolazioni neanche nel nostro Paese). E come la mettiamo poi con la spunta di chi ha votato, per accertarsi che egli abbia effettivamente diritto di voto nella città o nello Stato in cui ha votato. Quando il voto avveniva ai seggi elettorali, questa verifica veniva fatta da un membro del seggio incaricato di spuntare sulla lista degli aventi diritto di voto nel Comune (o della frazione di Comune). Almeno da noi avveniva così, ma presumo anche negli Stati Uniti. Con il voto per corrispondenza, questa verifica viene spostata a un ufficio dell’amministrazione comunale o cantonale (rispettivamente, negli USA: di contea o di Stato), dove la presenza dei rappresentanti dei vari partiti non sempre c’è. Inoltre i “passaggi” di mano delle schede diventano meno trasparenti (e quindi le possibilità di potenziali falsificazioni sfuggono al controllo). Ora, se uno ha fiducia cieca nella correttezza degli impiegati comunali a tutti i livelli (dal sindaco alle impiegate di cancelleria e agli usceri), è tutto perfetto. Nella maggior parte dei casi sarà, anzi credo e spero che sia così. Ma, ribadisco, purtroppo l’essere umano non è sempre un modello di correttezza, perché se per un motivo o per l’altro gli conviene o gli piace (e soprattutto se pensa di farla franca), può avere la tentazione di commettere una scorrettezza!

Tutti quelli che hanno votato sono cittadini americani?

Ora arriviamo al punto cruciale: negli USA vi sono in certe città comandate dai Democratici delle situazioni di strapotere e di faziosità che, per dare sia pure tenuamente un’idea, possono essere paragonate alla situazione vigente qualche anno fa in certe regioni rosse italiane (non quelle colpite dal Covid, ma quelle governate dal PCI…), oppure a quella che vigeva anche a Bellinzona 70 anni fa, quando il PLR aveva la maggioranza assoluta in entrambi i consessi e faceva il bello e il cattivo tempo! Che cosa significa faziosità? Significa che per diventare impiegato comunale devi essere attivista del Partito Democratico, oppure che se sei Democratico (e dimostri per esempio che hai votato alle ultime primarie DEM ) ti fanno ottenere il sussidio integrativo di vecchiaia o il Medicare anche se magari non ne avresti il diritto a norma di legge, oppure che se sei straniero residente illegalmente ma prometti di votare Democratico ti mandano subito il materiale di voto con la velocità di Speedy Gonzalez e ti lasciano votare anche se non sei manco cittadino americano. Non dico che quest’ultima cosa sia avvenuta (non ho gli elementi per provarlo e verificarlo compiutamente, e, se è avvenuta, non so in quale misura), ma capisco che Trump e i suoi sospettino che sia avvenuta abbastanza massicciamente da essere stata decisiva sull’esito del voto in qualche Stato. Dopotutto vi sono state dichiarazioni stampa plateali di sindaci di città e rappresentanti dell’ala radicale del Partito Democratico che invitavano a violare la legge restrittiva sull’immigrazione voluta da Trump e dal Senato, come vi sono giornali e maîtres à penser vicini ai Democratici che sostengono (come avviene anche da noi da parte di una certa Sinistra e di ambienti ecclesiali) che occorre accettare tutti quelli che arrivano e non fare distinzioni di sorta (e che quindi occorra anche lasciarli votare)….Quindi se tanto mi dà tanto, se ne può dedurre che gente di questo tipo sarebbe capace di organizzare anche una manipolazione in grande stile delle elezioni presidenziali con falsificazioni massicce di schede….

Quindi la domanda da porsi non è se siano stati contati correttamente i voti. Le domande da porsi sono piuttosto le seguenti: 1) tutti quelli che hanno votato l’hanno fatto essi stessi e con intenzione (oppure qualcuno ha usurpato il loro voto)? 2) Tutti quelli che hanno votato hanno diritto di voto (ovvero sono cittadini americani )? 3) Infine, tutti quelli che hanno votato sono persone realmente esistenti (o le schede sono state sistematicamente fabbricate dalla macchina elettorale del Partito Democratico, senza che ci sia nessuna garanzia né controllo che corrispondano a una persona realmente iscritta nel catalogo elettorale)?

Qualcuno potrà dire che sto delirando (come qualcuno degli ospiti di Formigli giovedì commentò che Trump stava delirando), ma chi conosce un po’ l’America sa che ci sono laggiù tante belle cose ma che sicuramente l’amministrazione statale (con l’eccezione forse della potente autorità fiscale) non è di quelle proprio perfettamente funzionanti. Non è la Germania o la Svizzera e nemmeno la Francia da questo punto di vista. Tradizionalmente vi è in America un approccio basato sulla fiducia senza limiti (basti pensare alla legislazione liberale sulle armi), fiducia che viene tolta solo a dimostrazione data del contrario. Direi: una fiducia smisurata nel prossimo, che poteva funzionare quando la società era ancora più omogenea, ma oggi nell’era del “politically correct” ipocrita e del comunitarismo multietnico non funziona più, perché le regole sociali di comportamento (che una volta erano scontate e imposte più dall’etica personale e dalla religione che non dalla legge) oggi non sono più scontate per tutti.

Valanga pro-Biden vera o fabbricata?

Per chi ha seguito negli scorsi giorni le vicende del conteggio delle schede negli States, un fattore di inquietudine psicologica è stato il fatto di sentir parlare di “valanga di voti pro-Biden in arrivo dal voto per corrispondenza”. Biden può essere stato in testa nel voto per corrispondenza, ma un voto “massiccio” e straripante a suo favore non è credibile, anzi è contrario al calcolo delle probabilità e al comportamento umano. Anche ammettendo che gli inviti (impliciti) di Trump negli scorsi mesi di non fare uso del voto per corrispondenza abbia potuto convincere qualche elettore ad agire di conseguenza, non è realistico pensare che tutti i repubblicani abbiano seguito la sua consegna e che quelli che hanno votato per corrispondenza siano massicciamente Democratici. “La valanga di voti in arrivo” mi ha rammentato i resoconti letti sul referendum istituzionale su monarchia o repubblica del 1946 in Italia, di cui dirò più avanti: anche allora si raccontò a posteriori la vittoria della Repubblica dicendo che, dopo un’iniziale prevalenza di voti per la Monarchia (dovuta, così si disse, al fatto che per cominciare si erano scrutinate prevalentemente le schede del Meridione d’Italia, dove prevalse il voto monarchico), sarebbe arrivata “una valanga di voti a favore della Repubblica “ in provenienza dal Nord. D’accordo che il Nord abbia visto prevalere la Repubblica, per i motivi che conosciamo tutti (l’occupazione tedesca più prolungata, la repubblica di Salò, la gestione discutibile del dopo-armistizio dell’8 settembre 1943 da parte di Vittorio Emanuele III e Badoglio), ma un conto è prevalere e un conto è un voto massiccio. La valanga arrivò veramente solo dagli elettori del Nord, oppure c’è qualcuno che decise di “corriger la fortune”, di accentuare il margine di vittoria repubblicana, magari perché preso dal panico che potesse davvero vincere la monarchia, dopo aver visto i primi risultati del Sud?

Il broglio del 1960 che permise la vittoria di Kennedy

I brogli di Chicago nelle presidenziali del 1960, grazie a cui Kennedy si assicurò i grandi elettori dell’Illinois decisivi per l’esito delle elezioni, erano certi e documentati. Ciò non di meno Nixon non osò andare fino in fondo e giustificò coi suoi collaboratori la sua decisione con l’argomento che una simile contestazione di un verdetto elettorale in sede giudiziaria non sarebbe stata capita dall’opinione pubblica, che l’avrebbe intesa come un gesto del “cattivo perdente” che non sa accettare con fair play il risultato. Forse si può ipotizzare anche ch’egli non fosse sicuro al 100 percento di vincerla davanti a un tribunale, in quanto l’esito di un contenzioso giudiziario non è mai scontato. Non solo qualsiasi giudizio può dipendere dalla composizione della Corte (che può essere più o meno sensibile agli argomenti del denunciante, può avere più o meno simpatia per lui) ma, in linea più generale, la verità storica effettiva non è necessariamente uguale alla verità giudiziaria; davanti a un tribunale per ottenere ragione occorre non solo portare delle prove, ma anche portarle nell’ambito di certe procedure e di certi tempi dati ! Per esempio bisogna convincere un testimone a deporre, ma talvolta può capitare che il testimone abbia paura di testimoniare perché teme vendette da chi viene accusato!. Occorre anche calarsi nella mentalità di quel tempo, quando l’opinione pubblica non era ancora abituata all’odierna trasparenza totale sui retroscena della politica e persino sulla vita privata dei politici. A quei tempi vigeva una certa regola di discrezione sulle relazioni private dei politici e un certo fair play nei rapporti anche fra avversari in politica. Per un conservatore come Nixon il dilemma tra il denunciare delle relazioni losche del suo sfidante (vincendo magari le elezioni) e il rischio di trovarsi in tal modo a dover denunciare interferenze mafiose nella politica, poteva essere difficile da risolvere. Perché di questo si trattava; ormai i fatti sono acclarati e accettati dalla maggior parte dei biografi di Kennedy e sono stati raccontati (sia pure in modo un po’ edulcorato) anche in un famoso film : un noto esponente della malavita organizzata di Chicago in combutta con la dirigenza locale del sindacato AFL-CIO notoriamente colluso con essa, organizzò il broglio in quanto il padre del candidato Kennedy lo aveva sollecitato a dare una mano alla campagna di suo figlio. In contropartita del sostegno a John Kennedy – secondo il film pocanzi citato – costui si aspettava (o papà Kennedy gli aveva promesso?) che il presidente una volta eletto gli avrebbe assicurato una certa protezione da determinate inchieste giudiziarie che lo inquietavano. Il fatto che poi il presidente Kennedy e suo fratello Robert, diventato ministro della Giustizia, non avrebbero rispettato questa promessa contropartita sarebbe – sempre secondo tale versione – all’origine dell’assassinio del presidente a Dallas il 22 novembre 1963. E forse anche di quello di Robert Kennedy nel 1968.
Di transenna va detto che 12 anni dopo, in occasione dello scandalo Watergate nel 1972, i Democratici non ebbero gli stessi scrupoli e lo stesso fair play di Nixon ad andare fino in fondo nella denuncia di un caso in cui il loro avversario era coinvolto….

Il caso del referendum istituzionale del 1946

La vicenda dei presunti brogli nella votazione sul referendum istituzionale del 1946 per contro non fu mai risolta in modo chiaro e convincente, neanche sul piano della ricerca storica e giornalistica; il broglio non fu mai provato compiutamente. E certamente, se ci fu falsificazione del voto, non lo si potrà più accertare, perché come in qualsiasi inchiesta giudiziaria (in specie di natura penale) i fatti possono essere appurati meglio se vengono accertati nelle ore e nei giorni immediatamente successivi agli avvenimenti. Se si lascia scorrere il tempo, invece, le prove possono essere cancellate, le testimonianze aggiustate, la memoria delle persone affievolirsi, eccetera. Ma ciò non di meno il sospetto resta, perché i dati ufficiali dei risultati del referendum consegnati alla storia, contenevano delle incongruenze difficili da spiegare. Per esempio, dai dati pubblicati dal Viminale risulterebbe che il 2 giugno 1946 in alcune province del Nord marcatamente filo-repubblicane (per es. Savona, Genova, Reggio Emilia, ecc.) votarono il 101, il 102 o il 103 percento degli elettori aventi diritto di voto! Parecchi anni fa avevo acquistato un libriccino di un tale che sosteneva e spiegava circostanziatamente questa tesi, illustrando anche come a suo dire venne compiuta la falsificazione: non principalmente negli uffici di voto comunali, ma nelle prefetture o nelle autorità preposte al conteggio a livello provinciale. Insomma si sarebbe trattato di un’operazione fatta a tavolino, correggendo all’insù con un tratto di penna i dati pervenuti dai Comuni……Purtroppo non lo trovo più quell’interessante libriccino, ma devo averlo da qualche parte….
Anche in questo caso per capire gli avvenimenti (e soprattutto per capire la riluttanza da parte monarchica a dare battaglia e ad esigere la verifica del conteggio dei voti) occorre immedesimarsi nel momento storico. Da parte dei dirigenti monarchici ci fu forse un po’ di sprovvedutezza (o una eccessiva buona fede), ma essi erano erano anche oggettivamente deboli. In primo luogo essi erano svantaggiati da un punto di vista logistico e organizzativo – soprattutto nell’Italia centrosettentrionale – rispetto allo schieramento repubblicano che poteva contare su una schiera di scrutatori degli organizzatissimi partiti del CLN, nonché sui ministeri chiave dell’Interno e della Giustizia (diretti rispettivamente dal socialista Romita e dal comunista Togliatti). Lo schieramento monarchico era uno schieramento d’opinione, ma non era un movimento politico organizzato; dietro di sé Umberto II aveva solo un popolo sparso di simpatizzanti, insomma quella parte moderata e tradizionalista della società che si riconosceva nella monarchia. Inoltre, le sinistre non scherzavano; nel caso che Umberto si fosse impuntato esigendo di ricontare i voti, non era esclusa la possibilità che nel Nord vi potesse essere un movimento insurrezionale (dopotutto la Resistenza era finita da appena un anno e molti partigiani comunisti avevano ancora le armi). Di fronte a tale situazione, e considerando anche che non aveva forti appoggi internazionali (Churchill aveva perso le elezioni in Gran Bretagna nel 1945 ed era stato sostituito dai laburisti; gli americani erano piuttosto neutri o indifferenti alla sorte della monarchia), Re Umberto non se la sentì di arrischiare uno scontro. Tutti coloro che furono vicini al Re dissero che egli, nel momento cruciale, piuttosto di arrischiare una lacerazione della nazione, preferì rinunciare e partire in esilio. Anche perché secondo la filosofia politica e la tradizione la ragion d’essere della monarchia era quella di unire un popolo e le sue varie componenti rappresentando l’unità della nazione. Se una monarchia diventa divisiva forse – avrà pensato Umberto II – essa non ha più tanto senso…..

Paolo Camillo Minotti

Relatore

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  • Grazie a Minotti per il suo interessante articolo; non conoscevo assolutamente questo retroscena elettorale statunitense, sconvolgente per una nazione che vuol essere modello avvocato e protettore della democrazia nel mondo intero, Europa compresa !

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