Il pensiero del giorno

Pescatore di perle nell’oceano informatico

Dopo la sparata di Ensy Abazi mi sono messo in caccia sul web, navigando alla ricerca di qualche “chicca”. La parola “Hirschhorn” mi ronzava nella testa. Dopo pochi (abili) clicchi con l’aiuto di Google casco dritto su un pezzo che di primo acchito mi colpisce. Lo esamino più a fondo e mi accorgo di aver messo le mani su un’autentica miniera.

Per comprendere l’articolo è necessario sapere che la performance escogitata dall’artista consisteva in questo: un cane urinava sul consigliere federale Blocher.

Era pubblicato su un giornale il cui nome non dico e firmato da un autore il cui nome taccio. Le messe in evidenza in azzurro sono mie. Avverto il lettore in anticipo che si tratta di un pezzo altamente spettacolare, meritevole di essere sottratto all’oblìo.

L’ipocrisia, l’indulgenza nei confronti della prepotenza e della prevaricazione, la viltà e la paura determinano i “ silenzi preoccupanti” degli intellettuali denunciati con inquietudine dal direttore di questo giornale. La decadenza morale ha alienato il corpo sociale ed ha contagiato le istituzioni più sacre della democrazia che, a piccoli frammenti, così nessuno se ne accorge, è privata della sua sostanza. È un modo di salvare le apparenze e di nascondere il degrado. Il Consiglio degli Stati che censura l’arte e punisce collettivamente gli artisti, non è quanto il paese si merita, come si dice fra il popolo del governo; è invece l’immagine fedele dello stato reale e della condizione in cui il corpo sociale si trova. In situazioni degradate come l’attuale, ogni proclama, ogni raccolta di firme, ogni comunicato fatto dagli intellettuali, scrittori o artisti, è perfettamente inutile.

È inutile proprio perché il messaggio di Hirschhorn, espresso con i mezzi odierni del linguaggio dell’arte che gli è congeniale, è stato rifiutato da chi dovrebbe accoglierlo, interpretarlo ed agire di conseguenza per rimettere in moto il libero sentire.

Hirschhorn è come il cane che bastonato in casa guaisce e va lontano dal padrone ad abbaiare forte, per manifestare il suo dolore con le immagini di un suo particolare metalinguaggio. L’artista è a Parigi, a mille chilometri di distanza dal palazzo del tiranno che non tollera nemmeno più il suo giullare. La lontananza non basta ai suoi persecutori. Si deve andare a stanarlo e ad affamarlo anche là.

Mi viene in mente Trotski, ucciso con una scure in Messico su commissione di Stalin [immagine audace]. I fendenti d’accetta dei deputati al Nazionale e agli Stati per ridurre al silenzio gli artisti invece, proprio per la meschinità provinciale e chiusa del paese che dovrebbero amare e sorvegliare, non raggiungono mai l’alta tensione del dramma e il pathos della tragedia.

Sono modi di fare meschini e doppi, con sopra una spessa patina d’ipocrisia, che hanno una solida tradizione e radici profonde nella storia. Si pensa una cosa e se ne dice un’altra. L’insincero Lombardi, che di mentire ha l’abitudine, sostiene che con il suo atto illiberale non vuole censurare gli artisti, né limitare la loro libertà d’espressione. Tuttavia colpisce un’istituzione come Pro Helvetia che non dà sovvenzioni ai panettieri o agli elettromeccanici, ma è determinante, nella situazione economica in cui oggi si trovano, per la sopravvivenza della libera espressione degli intellettuali [in concreto: il cane che fa pipì] in particolare degli artisti e degli scrittori che sezionano la sclerotica democrazia svizzera ed aprono i bubboni per sanare le infezioni. Hanno fatto letteralmente rabbrividire i cerotti messi sopra le diffuse necrosi da Camilla Mainardi, corrispondente da Berna della radio, che ha definito “ fastidi grassi” le dispute sull’intima essenza delle nostre libertà fondamentali.

A questo punto è più che giusto chiedersi che cosa ha scatenato nei politici tanto livore e tanta acrimonia verso una istituzione culturale per indurli a trasgredire al principio costituzionale che garantisce la libertà dell’artista (art. 21) e violare la legge che dispone l’indipendenza di Pro Helvetia. È necessario qui essere franchi: che ha turbato e disturbato i senatori degli Stati, così come i compari e le comari del Nazionale che li hanno seguiti, è il cane che nella mostra di Parigi urina sull’immagine di Blocher [come da me anticipato a vantaggio del lettore]. Nello stato perenne d’infanzia e d’immaturità culturale in cui si trovano, i nostri deputati non pensano nemmeno un secondo a cosa sia il metalinguaggio nell’arte, né riflettono sulla enorme differenza che c’è fra il valore simbolico e figurato del gesto e quello reale e concreto. Per i senatori e i deputati cattolici, che regrediscono nella storia perché sempre si credono unti dal Signore, perciò appartenenti a una casta con il privilegio di essere intoccabile non solo dall’atto offensivo reale, ma anche da quello simbolico, il fatto che uno di loro, un politico, sia messo da un artista in una situazione fra il penoso e il ridicolo, è un peccato mortale imperdonabile. A loro poco importa se Blocher personalmente, o qualcuno per suo conto, pisciano sopra gli immigrati, gli stranieri, i sindacati, i dipendenti federali, il concetto di Europa, l’Islam. Sono insensibili al fatto che l’urina di Blocher non solo sa cattivo odore, ma fa male, brucia e provoca dolore profondo e vero. Quella di Hirschhorn invece fa solo pensare e sorridere. Blocher si autoproclama pubblicamente intenditore e collezionista d’arte, quando invece la sua perizia si riduce a una rêverie autoreferenziale e nostalgica, ispirata dai quadri di Albert Anker (1831-1910), un pittore di un’epoca in cui gli artisti, secondo il suo giudizio fondato sulla nostalgia, sapevano ancora dipingere, i padroni erano ancora tali e i subalterni dovevano stare al loro posto.

[Finalino anti-leghista. Come possa il Nano essere assimilato a Blocher, lascia francamente sbalorditi, ma tant’è] Anche noi abbiamo il nostro piccolo Blocher. Non s’intende d’arte, è di dimensioni intellettuali ridotte ma sufficienti per farci capire quali e quanti sono i meccanismi che portano i politici e gli intellettuali a comportamenti aberranti. Il nostro caudillo è Giuliano Bignasca. Come Blocher, appartiene a quella “razza padrona” che, appena caduto il muro di Berlino, appena i comunisti non fecero più paura, per riproporre un regime tanto desiderato ha cominciato sistematicamente a intimidire, ricattare, insultare e dileggiare tutti quelli che credono nell’uguaglianza e nella dignità della persona e non sono disposti a sottomettersi come servi o schiavi a padroni di tale risma. C’è stata in questi ultimi anni una restaurazione del potere esclusivo dei padroni. Da noi, che si sono rifatti vivi, non sono quelli del vapore, perché di industrie importanti nell’ottocento non ne avevamo, ma quelli delle cave della Riviera e della Valmaggia, quelli che controllavano e facevano fare la “ binda” alle donne dell’Onsernone, i Bressani della Fabbrica Tabacchi di Brissago, i Pedroni e i Camponovo di quelle del Mendrisiotto e quelli delle filande lungo la Tresa. “Il Mattino della Domenica”, giornale di Giuliano Bignasca, è stato, e lo è tutt’ora, un devastante strumento d’intimidazione, di dileggio e di ricatto per chi critica o denuncia fatti e circostanze che ostacolano gli affari legittimi o meno, puliti o sporchi, delle famiglie che hanno occupato lo Stato per aggiustare o promuovere le proprie faccende private. È qui che entra in scena la paura degli intellettuali, richiamati al loro dovere di testimoniare da Matteo Caratti. Come la “razza padrona” ha una tradizione di prevaricazione, anche la casta o “razza” degli intellettuali ha la sua lunga tradizione di silenzi e di viltà, proprio per la condizione in cui nel Ticino moderno si è sempre trovata e si trova.

Per capire il carattere e la personalità dell’intellettuale svizzero italiano si dovrebbe rileggere il libro “ All’ombra del Duce” di Pierre Codiroli. Scopriamo allora scrittori e artisti che stanno comodamente a galla e sono riveriti, perché organici ad ogni genere di regime. Lo scrittore, l’artista, l’architetto, l’ingegnere, l’avvocato che nel nostro Cantone o è docente pagato dallo Stato, o attende dallo Stato qualche sostanzioso mandato, si fa cortigiano del potere, sta zitto, perché a parlare, a scrivere, a criticare ed indignarsi ha sempre qualcosa da perdere e poco o niente da guadagnare.

Dilaga allora, fra quelli che dovrebbero pensare e testimoniare, l’amore per la propria viltà, il sottile piacere all’asservimento. I deputati della destra più retriva, che stanno sempre con un piede nei territori neofascisti e con l’altro in quelli di una democrazia da loro sclerotizzata, con i cattolici tradizionalmente e sempre loro alleati quando si tratta di limitare la libertà d’espressione, hanno dato a tutti gli intellettuali, anche se non ce n’era bisogno, perché la maggioranza di loro è già servile e si adegua, un segnale chiaro ed esplicito: ogni espressione libera, ironica, contro il potere, è uno sputo nel piatto in cui si mangia, ogni critica è livore. Si faccia attenzione allora, perché, per quelli che non si prosternano spontaneamente e non dicono sempre di sì, a suggerire e determinare ciò che si può dire, scrivere, raffigurare sono – come nelle cave e nelle fabbriche dell’ottocento, dove ancora si crepava di silicosi e di tisi senza il sollievo di una cassa malati – le associazioni padronali e bancarie, i cui presidenti o segretari, autentici galli nei pollai dell’economia, ogni mattina, invece del chicchirichì al sorgere del sole, cantano che sono loro e solo loro a produrre ricchezza. Gli altri, gli operai, gli impiegati, gli artisti, gli scrittori non fanno niente. Allora stiano zitti. È questo il penoso quadro della democrazia e della libertà generalmente intese oggi.

Lungo, e nella parte finale stiracchiato, ma contrassegnato da alcuni passaggi sublimi. Non ne sapevo nulla, sono andato a caso e ho trovato una perla. Oggi è stato il mio giorno fortunato!

Relatore

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