Vermiglio è il fiore del melograno a cui il Dante bambino tende la pargoletta mano, ma Carducci del figlio resta soltanto il ricordo.
Vermiglio è il tappeto su cui si stende Ada, la figlia più giovane, per ascoltare di nascosto il padre, maestro elementare, che studia e ascolta la musica e sognare, così, un futuro diverso, recitando le poesie del Carducci, appunto e del Pisacane.
Vermiglio è il Paese natale del padre della regista, che dà così il titolo al suo nuovo film, Leone d’argento a Venezia 2024: un tributo alle origini, che guarda a Olmi. Vermiglio narra una vita a contatto con la natura, gli animali, le feste di paese, il folklore, ma anche la sofferenza, la fatica nei campi e nei boschi, la morte degli infanti.
Cesare, maestro di campagna e padre padrone, “regna” su una moglie costantemente gravida e sui suoi otto figli. Di questi, Dino sarà il reietto, amando la madre, detestando il padre; Ada sarà la prescelta: potrà studiare, andare in collegio a Trento, lasciare i suoi otto fratelli e una vita di privazioni. Non sarà così fortunata Lucia, la maggiore delle figlie del maestro, che si innamora di Pietro, un disertore siciliano, giunto a Vermiglio mentre portava in salvo un compagno autoctono del luogo. Pietro e Lucia si sposano, ma a guerra finita Pietro parte per la Sicilia, dove lo attendono le origini e a Lucia non resterà che accogliere una cruda verità (Pietro era bigamo, è morto, ucciso dalla prima moglie siciliana) ed emanciparsi.
Vermiglio ha il pregio di fare emergere la trama unicamente dai dialoghi (tutti in dialetto e sottotitolati) dei personaggi: parole scarne, taglienti come lame, pronunziate da volti intatti e naturali (molti degli attori sono ragazzi del luogo non professionisti, scelti appositamente dalla regista). La narrazione è immersa in scorci di paesaggi d’una bellezza abbacinante: cascate, rocce a strapiombo, boschi innevati. La morte e la vita stesse sono narrate con animo: il funerale del bambino rappresentato solo dal canto in latino e dalla neve, ad esempio, è pura poesia, così come il matrimonio reso con naturale grazia.
Però, Vermiglio è estremamente lungo (quasi tre ore) e la trama, di per sé scarna, non appassiona. Inverosimile il viaggio di andata e ritorno di Lucia dal Trentino alla Sicilia, solo per pregare sulla tomba del marito morto; solo per comparare il cimitero invernale del Trentino a quello siciliano col mare sullo sfondo.
Certamente, Vermiglio fa riflettere. Può essere riletto come una storia di emancipazione femminile attraverso la sofferenza: l’abbandonata Lucia lascerà il bambino alla sorella (fattasi suora, suo malgrado) e andrà a lavorare in città. Flavia, invece, che ha dovuto prendere il velo, guarda con invidia tutto ciò che non può raggiungere: gli studi di Ada, l’amore di Lucia, la trasgressione dell’amica Virginia (che fuma di nascosto). Così prenderà i voti, accogliendo un’identità forzata.
Vermiglio guarda all’Albero degli Zoccoli di Olmi, di cui riesce un’imitazione perfetta, non vuole narrare di guerra, di diserzione, dell’Armistizio, ma soltanto di una realtà remota e incredibilmente vicina nel tempo.
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