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Il campanile incantato di Curon Venosta – di Manuela Mazzi

Foto Wiki commons (Demetrio Gregorini) – https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/deed.en

È affascinante vero? Eppure…

Il campanile di Curon Venosta, paesino piccolo della regione di Bolzano, se ne sta là a pochi metri dalla riva, nell’acqua, a farsi guardare dagli anni Cinquanta. Apparteneva a una chiesetta romanica del 14° secolo e finì travolto dalle acque di un neonato laghetto artificiale, con altre 163 case.

Scattai questa foto nel 2005. Il livello del lago di Resia era abbastanza alto da lasciare incantati. È un luogo non felice per chi all’epoca dovette abbandonare le proprie abitazioni, ma è innegabilmente un’attrazione pazzesca per chi ci passa davanti. Io, che non conoscevo la sua esistenza, non me lo aspettavo; quando sbucammo in quel paesino, venendo dai Grigioni, sgranai gli occhi. Fu quasi un colpo di fulmine. Me ne innamorai all’istante. Non sarei mai voluta andare via. Avrei voluto scattare migliaia di fotografie. Avrei voluto avere a disposizione bombole d’ossigeno e muta per scendere a guardare il paese. Mi immaginai di tutto, mi vedevo tavoli e credenze contenenti ancora posate e stoviglie, bauli, quadri…

Non che da noi non esistano paesi sommersi, e proprio a causa della formazione di dighe, basti pensare al paesino sotto il lago della Verzasca, o al ponte romano che torna all’aria, riemergendo dalla Melezza, quando svuotano la diga di Palagnedra, ma, come dire, non avanzano su, non spuntano dalle acque in quel modo, come quel campanile, a quella maniera lì. Come simbolo e promessa: infatti, io, volevo davvero vedere l’intero paese. Ecco la fregatura.

Questo campanile è una promessa non mantenuta. È come i quadri della casa stregata di Walt Disney, ma senza la magia. Non è, in somma, un campanile che indica la presenza di un paese, anche un paese morto, ma un paese. È “solo” una sorta di obelisco europeo, con una meridiana per iscrizione, e forse delle campane in cima. Me ne accorsi quando tornai un paio di anni dopo, avrei potuto prendermi un po’ di tempo da dedicargli. Ma era un’estate molto calda, o forse stavano facendo le pulizie annuali: il livello dell’acqua era bassissimo, così basso che il campanile poteva essere raggiunto, e davanti e attorno a questo monumento di sassi, il nulla.

Ecco, come una narrazione può trasformarsi in una delusione. Una promessa forte, una promessa che scatena mille immaginazioni, può anche agganciare un lettore, ma se poi non viene mantenuta, la delusione che ne deriva sarà molto brutta. Se poi la promessa è proprio quella sbagliata, il danno è forse anche peggiore.

Questo campanile non sta là per farsi applaudire, ma per dire: qui molta gente è stata buttata fuori di casa, hanno perso tutto, se ne sono dovuti andare. Il problema è che si tratta di un simbolo forse troppo bello per testimoniare la devastazione di un paese intero per lo sfruttamento di una preziosa risorsa idroelettrica. E anche in questo senso ha qualcosa di disturbante. Come si fa a sentirsi tanto affascinati dall’icona di un disastro? Qualcosa di simile l’ho provato passeggiando sulla lunga spiaggia francese che servì agli americani per vincere la seconda guerra mondiale: la spiaggia dello sbarco in Normandia è una delle più belle che abbia mai visto al mondo.

Avrei ancora da aggiungere diverse riflessioni, ma siccome il post è già molto lungo, mi fermo qui, chiudendo in due righe: oggi quando guardo questo campanile, questo spettacolo dal vero o in fotografia, mi sento come una che è già stata nella sala dell’ascensore della casa stregata e sa che quando inizierà a scendere sui quadri di lato non si vedrà altro che una parete a tinta unita.

Manuela Mazzi

Relatore

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