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Il nuovo conformismo. Algoritmo e pensiero unico nella società della performance

di Fabio Cavallari

C’è un nuovo modo per spegnere il dissenso. Non lo si reprime. Lo si assorbe. Lo si trasforma in contenuto. Lo si rende innocuo. Non si elimina la parola, si svuota di sostanza. La si mette in scena, la si replica, la si monetizza.

Oggi, chi dissente davvero non è chi urla. È chi tace fuori dal coro. Chi non entra nel flusso. Chi non partecipa all’alleanza tra algoritmo e accettabilità.

Il potere non ha più bisogno della censura. Ha il consenso. Ha l’algoritmo. Sa cosa ci indigna, cosa ci seduce, cosa ci distrae. Costruisce attorno a queste reazioni un universo chiuso, dove si può dire tutto, purché non si dica nulla che incrini la narrazione dominante.
Il paradosso è che più si parla, meno si dice. L’eccesso di parola uccide la voce. La pluralità apparente neutralizza il pensiero vero.

In Italia, il governo Meloni gioca con queste dinamiche. Parla contro le élite, ma usa il loro linguaggio. Parla di popolo, ma lo tratta come pubblico. E soprattutto, confonde opinione e identità. Se critichi, non esprimi un punto di vista: tradisci un’appartenenza.
Nel frattempo, le piattaforme decidono cosa mostrare, cosa seppellire, cosa rendere virale. Il linguaggio si adatta. Si semplifica. Si rende digeribile. Si sterilizza. La parola non è più luogo del pensiero. È funzione. È marketing. È algoritmo.

Il politicamente corretto, nato per proteggere, è diventato dogma. Impedisce. Congela. Ogni parola è una minaccia potenziale, ogni frase deve essere conforme a un’etica di superficie. Si invoca la sensibilità per cancellare il conflitto. Si predica la tolleranza per evitare ogni contraddizione. Ma senza conflitto non c’è pensiero. Senza rischio non c’è parola vera. Senza parola, il potere vince senza esporsi.

Il dissenso non si trova più nelle piazze. Sta nel linguaggio. Nell’ambiguità. Nella libertà di non piacere. Nell’ostinazione di chi rifiuta il frame. Scrivere non è comunicare. È sottrarsi. È custodire l’irregolarità. È proteggere l’opacità come spazio di verità. “Il vero linguaggio – scriveva George Steiner – è un gesto di frontiera. Una diserzione. Una fedeltà inquieta.” Ecco: oggi il linguaggio autentico è quello che diserta l’ovvio. Che espone al fraintendimento. Che non si lascia convertire in performance.

Il nuovo conformismo non impone. Seduce. Non censura. Concede tutto, tranne la possibilità di disturbare davvero. E allora la vera disobbedienza è questa: dire ciò che non si può monetizzare. Pensare ciò che non può essere semplificato. Scegliere la complessità come forma di resistenza.

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