Esser sul Westminster bridge di notte, quando il cielo chiaro e opaco di Londra sfuma verso il blu intenso, da una sensazione di smarrimento. Ho rimirato la camera dei Lords, il big ben sorprendentemente incastonato nelle impalcature di restauro; la guglia di Westminster Abbey che spicca di lontano, e a destra il monumento (1902) a Budicca regina degli Iceni tragica eroina del 60 d C. E poi il London Eye, immensa ruota panoramica rosseggiante nella notte, e i vitrei grattaceli che si stagliano nell’oscurità… Tutto ciò è una moderna bellezza che sfregia Londra. Perché il volto della Londra dei poeti, degli accattoni e delle prostitute, distrutto dai bombardamenti del ’44, non fu mai più ricostruito. E così, al posto dei palazzi storici, ecco sorgere mostruosi, immensi e per certi versi straordinari grattaceli.
Penso per un attimo che la globalizzazione non sia poi così male, checché ne dicano i movimenti identitari, mi trovo a Londra da sola, e mi sento a casa.
Ma sul Westminster bridge temo che mi cada qualcosa nel Tamigi, qualsiasi cosa, ogni cosa. Temo di perdere me stessa… È quella dicotomia tra mondo moderno e ancestrale sentire, innegabile arcaica tensione di appartenenza a qualcosa. Ed essere stranianti è una sensazione d’inquietudine amabile e morbosa al contempo.
Rientro in hotel. La globalizzazione ha i suoi lati positivi, viaggiare per esempio. Ma i grattacieli fanno parte della distruzione di una storia ormai persa.
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