Giona era un piccolo ebreo che vendeva colombe al mercato, e Ionà vuol dire colomba. Le vendeva per pochi soldi ai poveri, a coloro che non potevano permettersi di sacrificare agnelli, vitelli o buoi. Un giorno Dio disse a Giona: “Gli uomini di Ninive sono malvagi. Parti per Ninive e annuncia a tutti la punizione della città”.
Giona disubbidì a Dio, scese da Gerusalemme a Giaffa, pagò il pedaggio e s’imbarcò su una nave che salpava verso ovest. Allora Dio fece sorgere un vento fortissimo che sconvolse il mare; la nave era sul punto di sfasciarsi e stava per colare a picco. Giona era sceso nella stiva e si era addormentato profondamente.
Che cosa fa, che cosa pensa, che cosa dice Giona nel ventre della balena? Recita un antichissimo salmo e chiede perdono a Dio. Dopo tre giorni e tre notti Giona è vomitato sulla terra ferma (“all’asciutto”, hayyabbashah).
Per la seconda volta Dio parla a Giona e questa volta Giona ubbidisce. Si reca a Ninive, la grande città, lunga tre giorni di cammino e ricolma di centoventimila abitanti. Grida, ardente di furore profetico: “Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta!” Tutti gli credono, a cominciare dal Re. Si vestono di sacco e si mettono a sedere sulla cenere. Si strappano i capelli e implorano il perdono di Dio. E – miracolo! – il Dio irato “si pente” (può Dio pentirsi?). Quel male che voleva far loro, non lo farà. Ninive è salva.
Nel quarto e ultimo capitolo accade l’incredibile. Giona s’indispettisce addirittura con Dio. “Signore, tu mi hai mandato a maledire la città, io non volevo ma l’ho fatto per te, minacciandola di distruzione. Ora tu li perdoni così e trattieni la tua mano!” “Ascolta, Giona. Io sono un Dio terribile nell’ira, ma so essere dolce nella misericordia. I centoventimila Niniviti li ho risparmiati”.
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Bella metafora.
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