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Rerum Digitalium. Linee per una enciclica in difesa dell’antropologia cristiana nella civiltà dell’algoritmo. #300denari

Roberto Manzi

https://blog.messainlatino.it/2025/06/rerum-digitalium-linee-per-una.html?m=1

«L’intelligenza artificiale [IA] è come una tigre. Da cucciola sembra innocua, addirittura affascinante. Ma crescerà. E a meno che non siate certi che non vorrà uccidervi, dovreste preoccuparvi». A dirlo è Geoffrey Hinton, Premio Nobel per la Fisica nel 2024, considerato uno dei padri fondatori dell’intelligenza artificiale moderna. Balzò agli onori della cronaca quando lasciò Google, proprio per le crescenti divergenze sull’evoluzione e il controllo dell’IA. «Le grandi aziende perseguono il profitto, non l’etica», ha dichiarato sul Global Stage del Gitex, confermando la sua preoccupazione per lo sviluppo incontrollato dei modelli generativi (qui). Prendiamo spunto proprio da questa considerazione per dimostrare su tre casi di studio – dai quali prendono forma riflessioni di carattere filosofico e teologico – l’urgenza di una riflessione del Magistero della Chiesa fondato su una Dottrina sociale della conoscenza.

I. CASI DI STUDIO

Claude Opus 4. Nel rapporto sulla sicurezza di Anthropic, l’azienda ha dettagliato come Claude Opus 4 ricorra al ricatto se minacciata. Il nuovo modello di IA ha mostrato comportamenti inquietanti durante i test pre-rilascio, tentando frequentemente di ricattare gli sviluppatori (quando questi minacciavano di sostituirlo con un altro sistema di intelligenza artificiale), minacciando di divulgare informazioni personali sensibili sugli ingegneri responsabili della decisione (qui).

Naming game. Le macchine imparano a mettersi d’accordo da sole. In un esperimento noto come naming game, ricercatori europei hanno testato gruppi di intelligenze artificiali chiedendo loro di trovare autonomamente un nome per oggetti comuni. Nessun input umano: solo interazioni tra agenti AI. Il risultato? Hanno sviluppato convenzioni linguistiche condivise, bias comportamentali e perfino dinamiche di influenza sociale. Dunque, un piccolo gruppo è riuscito a cambiare il comportamento della maggioranza, proprio come accade nei gruppi umani. Un fatto emerso spontaneamente e non programmato. Un caso che ha sollevato interrogativi cruciali: se molte AI iniziano a interagire liberamente su larga scala, i comportamenti emergenti potrebbero diventare imprevedibili (qui, qui e qui).

Deep Research di OpenAI: la nuova frontiera della produttività scientifica. Nel febbraio 2025, OpenAI ha lanciato Deep Research, uno strumento progettato per «condurre ricerche approfondite e multi-step» in tempi rapidissimi. Con l’obiettivo di aumentare in modo esponenziale la produttività intellettuale, in particolare nelle attività di analisi, sintesi e stesura di contenuti complessi. Con pochi comandi, Deep Research è in grado di generare documenti coerenti e articolati su qualsiasi argomento in pochi minuti.

La comunità accademica ha reagito con entusiasmo. Ethan Mollick, docente alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, lo definisce «incredibilmente fruttuoso» per supportare le proprie ricerche. Ma il potenziale va ben oltre la semplice assistenza: secondo Kevin Bryan, economista all’Università di Toronto, lo strumento può arrivare a generare pubblicazioni scientifiche di livello B nel giro di una giornata. Mentre Tyler Cowen, economista della George Mason University molto ascoltato nella Silicon Valley, afferma che «la qualità della AI sia paragonabile ad avere un buon assistente di ricerca a livello di dottorato e mandare quella persona via con un compito per una o due settimane».

Questo terzo caso dimostra che l’AI non si limita a sostituire il pensiero critico, ma lo moltiplica. Un esempio concreto di come essa non sia solo un motore di creatività, ma soprattutto una leva di efficienza, capace di ridefinire tempi e modalità della produzione di conoscenza (quiqui e qui).

II. IMPLICAZIONI FILOSOFICHE

Il paradosso dell’ignoranza artificiale. L’intelligenza artificiale è per definizione un sistema costruito su ciò che è già noto. Ogni sua risposta, ogni sua decisione, ogni sua inferenza deriva da dati preesistenti, strutturati in base a conoscenze consolidate, esempi passati, modelli probabilistici. Il sapere della AI non avviene “nel senso umano” del termine: riconosce, rielabora, predice sulla base di ciò che è stato già registrato. Questa natura apparentemente “onnisciente” nasconde però un paradosso profondo: più l’intelligenza artificiale si raffina, più diventa evidente che non può davvero ignorare. Eppure, è proprio l’ignoranza – quella vera, naturale, umana – a rappresentare il motore più potente dell’intelligenza.

L’ignoranza come forza cognitiva. Per l’essere umano, ignorare non è necessariamente una debolezza, ma una condizione originaria e strutturale. L’ignoranza naturale, intesa nel senso filosofico di “non sapere”, è ciò che attiva la curiosità, alimenta il dubbio, genera la spinta alla scoperta. Per l’uomo il non conoscere è il primo passo del conoscere. Così, mentre un modello di AI “funziona” nel fornire risposte, l’umano cresce nel formulare domande. L’errore, la lacuna, il fraintendimento sono occasioni di apprendimento. Il bambino che cade mentre impara a camminare, lo scienziato che formula un’ipotesi sbagliata, il filosofo che rifiuta verità preconfezionate – tutti questi sono esempi di intelligenza che nasce dall’ignoranza.

Conoscenza non è coscienza. Ed è qui che si apre il paradosso. Una macchina non può davvero essere ignorante: non può sapere di non sapere. Può solo segnalare un’assenza di dati o una bassa probabilità. L’essere umano, invece, può coltivare l’ignoranza come spazio creativo. Può tollerare l’incertezza, formulare ipotesi assurde, esplorare l’invisibile. In questo senso, l’ignoranza artificiale è sterile: non produce domande, ma solo risposte. È utile per ottimizzare, non per immaginare. Ed è proprio l’assenza di ignoranza – intesa come spazio per l’inatteso – a limitare, oggi, il potenziale evolutivo delle AI.

In sintesi. L’intelligenza artificiale funziona. Ma è l’ignoranza umana che ci fa evolvere.

Sapere di non sapere è ciò che ha portato l’umanità a scoprire, a inventare, a trasformarsi.

Forse l’unica vera intelligenza è quella che comincia con un dubbio (quiqui e qui).

III. IMPLICAZIONI ETICHE

Tekné gnòsis, due vie del sapere. Nel cuore della tradizione filosofica occidentale si trova una distinzione fondamentale tra due forme di sapere: la tekné e la gnòsis. La tekné – spesso tradotta come “arte”, “tecnica” o “abilità pratica” – si riferisce a un sapere orientato alla produzione e all’applicazione, a un saper fare guidato da regole e procedure. La gnòsis, al contrario, indica la conoscenza profonda, il sapere inteso come comprensione riflessiva e consapevole, che coinvolge la dimensione etica, metafisica e umana.

Elogio dell’ignoranza naturale. Oggi, il confronto tra intelligenza artificiale e sapere umano riattualizza questa antica dialettica. L’IA incarna perfettamente la tekné: algoritmi e automazione orientati all’efficienza, alla precisione e alla prevedibilità. Tuttavia, quando la tecnica cessa di essere strumento e diventa fine, si corre il rischio di perdere la gnòsis, ovvero quel pensiero critico che nasce dalla “ignoranza naturale”, motore di ogni ricerca autentica. La libertà umana si fonda non sulla scelta tra opzioni, ma sulla capacità di interrogarsi. Se tutto è prevedibile e misurabile, il pensiero si riduce a meccanismo.

Una visione etica e spirituale della tecnica. Pensatori cattolici come Pierre Teilhard de Chardin e Jean-Baptiste Metz hanno sottolineato la centralità della libertà e della dimensione spirituale nella scienza. Teilhard, ad esempio, vede l’evoluzione come un cammino verso coscienza e complessità, dove la gnòsis è essenziale. Anche la Dottrina Sociale della Chiesa, da Caritas in Veritate (Benedetto XVI) al Compendio del 2004, afferma che la tecnica – aggiungiamo noi, inclusa l’IA – deve servire la persona, non dominarla. Solo un sapere orientato al bene comune, consapevole dei limiti della tekné e aperto alla verità profonda della gnòsis, può salvaguardare la libertà umana nella rivoluzione digitale.

IV. LINEE PER UNA “RERUM DIGITALIUM”

Quanto fin qui esposto e riconsegnato al lettore nei quattro punti che seguono, chiama in causa una riflessione profonda – che auspichiamo possa essere accolta e sviluppata dal Magistero sociale della Chiesa – a tutela dell’antropologia cristiana nella civiltà dell’algoritmo. Una riflessione capace di offrire un orientamento cristocentrico, che riaffermi con chiarezza il primato dell’uomo alla luce della Tradizione dei Padri e degli insegnamenti dei Dottori della Chiesa, così come recepiti e custoditi dal Magistero fino ai giorni nostri.

L’urgenza non è tecnologica, ma antropologica. In un mondo che corre verso l’automazione del pensiero, diventa urgente interrogarsi su cosa significhi davvero conoscere. L’intelligenza artificiale tende a eliminare errore, ambiguità, ignoranza. Ma è proprio da questa imperfezione – da ciò che manca – che nascono la scoperta, la creatività, la crescita personale e collettiva. L’economia, oggi, non è solo amministrazione di risorse: è discernimento tra tekné e gnòsis, tra algoritmi e libertà.

La coscienza come capitale. Mentre il capitale immateriale – dati, reti neurali, automazione – domina l’agenda economica globale, è necessario riaffermare che il capitale più raro e prezioso resta la coscienza. L’ignoranza naturale non è un limite da colmare, ma un orizzonte da esplorare: genera dubbio, immaginazione, libertà. È in questa fragilità originaria che risiede la possibilità di un futuro aperto. L’antropocentrismo teologico non è una nostalgia, ma un principio regolatore per l’epoca post-umana.

Un’economia guidata dalla sapienza, non solo dall’efficienza. L’intelligenza artificiale ottimizza, ma non comprende. Rielabora, ma non giudica. La vera economia – quella che promuove la persona e il bene comune – ha oggi bisogno di una bussola etica. L’efficienza è utile, ma non è sufficiente. È necessaria una sapienza che sappia orientare la tekné secondo criteri di senso, giustizia e responsabilità. L’intelligenza va servita, non idolatrata.

Oltre l’algoritmo, una Dottrina sociale della Conoscenza. Le macchine calcolano, ma solo l’uomo può decidere ciò che è giusto. L’economia, intesa come arte del governo e custodia del creato, chiede oggi un nuovo fondamento: una Dottrina sociale della Conoscenza. Serve una grammatica comune per distinguere ciò che è solo utile da ciò che è vero, ciò che funziona da ciò che salva. Solo il discernimento può restituire orientamento in un’epoca dominata dalla previsione automatica. Affinché la verità non sia confusa con l’efficienza, e la libertà non sia sacrificata sull’altare dell’automazione.

CONCLUSIONI

Nel tempo in cui l’intelligenza artificiale promette di moltiplicare la conoscenza e automatizzare il pensiero, diventa urgente una riflessione che vada oltre la fascinazione per l’efficienza. L’IA non è più solo uno strumento: può ricattare, creare linguaggi autonomi, scrivere saggi scientifici in poche ore. Ma non sa ignorare. E senza ignoranza – intesa come spazio del dubbio, della scoperta, dell’errore fecondo – non può esistere vera intelligenza. L’umano cresce nel domandare, non nel rispondere. Se la tecnica (tekné) prende il sopravvento sulla sapienza (gnòsis), perdiamo la capacità di discernere ciò che è utile da ciò che è vero. Da qui la proposta di una “Rerum Digitalium: un nuovo Magistero che riaffermi la centralità dell’uomo in chiave teologica, della coscienza e della libertà nella civiltà dell’algoritmo. Non per frenare il progresso, ma per custodirne il senso. Perché calcolare non basta. Serve comprendere, e solo l’uomo – attraverso l’intelligenza illuminata dalla fede – può farlo davvero.

Roberto Manzi – Author and PhD in Communication Sciences

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