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DEMOCRAZIA SENZA VERITÀ: IL COLLASSO ONTOLOGICO DELL’ORDINE GIURIDICO OCCIDENTALE

Daniele Trabucco

L’Occidente contemporaneo si fonda su un ossimoro strutturale: l’affermazione della libertà mediante la negazione dell’ordine oggettivo del reale. Le democrazie liberali moderne, nel presentarsi come epifanie storiche dell’autonomia individuale e della partecipazione popolare, dissimulano in realtà una crisi teoretica profonda, la cui radice risiede nella dissociazione dell’ordine politico-giuridico dal fondamento metafisico della legge naturale. In luogo della verità come criterio della giustizia, si è affermata la volontà, ora del singolo, ora del demos, ora di apparati sovranazionali, quale unica fonte di legittimazione normativa. La democrazia, ridotta a procedura autoreferenziale, si erge così come idolo politico di un’epoca che ha smarrito il senso della partecipazione alla “lex aeterna”.

L’idea moderna di democrazia, lungi dal coincidere con una forma ordinata di governo conforme al bene comune, si configura sempre più come uno schema formale di decisione fondato sull’indeterminazione dei contenuti. Essa nasce e si sviluppa all’interno di un paradigma antropologico segnato dal nominalismo e dalla soggettivazione assoluta della libertà: l’uomo, concepito come “ens ex nihilo”, si pretende creatore di sé, costruttore arbitrario del proprio essere e del proprio fine. Tale presupposto disgrega ogni possibilità di un diritto naturale inteso come misura razionale dell’agire umano conforme alla natura razionalmente ordinata. Il diritto, emancipato dall’essere, diventa decisione, e la decisione, svincolata dalla verità, si piega alle contingenze del desiderio. Il costituzionalismo contemporaneo, figlio di questa matrice teoretica, si fonda su un’ambiguità originaria: da un lato proclama diritti inviolabili della persona, dall’altro rifiuta di ancorare tali diritti a un’antropologia normativa. Il risultato è un sistema in cui la dignità umana è affermata in astratto, ma svuotata di contenuto concreto, poiché non si riconosce più un’essenza dell’uomo conoscibile dalla ragione. L’individuo, assolutizzato e decontestualizzato, viene posto al centro della produzione giuridica come soggetto di pretese illimitate, senza alcun riferimento a una misura oggettiva del bene.

Così, il diritto non è più ordinamento razionale dell’agire, ma moltiplicazione indefinita di aspettative individuali, istituzionalizzate in forma di diritti soggettivi svincolati da ogni fondamento etico. L’Unione Europea incarna in modo esemplare questa deriva post-metafisica.

A partire dal Trattato di Maastricht del 1992 (in vigore dal 01 novembre 1993), l’Europa ha progressivamente abbandonato la logica dell’integrazione tra ordinamenti nazionali sovrani per adottare il modello di una governance sovrastatale tecnocratica, retta da un diritto positivo fluttuante e privo di radicamento nel diritto naturale e nella tradizione giuridica classica. Il principio di sussidiarietà è stato svuotato del suo significato originario, ossia la salvaguardia dell’autonomia delle comunità inferiori in vista del bene comune, per diventare un meccanismo di neutralizzazione delle sovranità nazionali sotto il primato della compatibilità economica e dei parametri finanziari. In questo contesto, la volontà popolare non è più esercizio deliberativo del bene comune, quanto funzione procedurale dentro un perimetro normativo già tracciato da poteri che si autoriproducono. Il diritto europeo si presenta come una normatività anonima, priva di volto, incapace di esprimere un ordine giusto perché non ordinato alla verità dell’uomo e della comunità. La “lex”, non essendo più “ordinatio rationis ad bonum commune”, diventa “imperium technicum”, regolazione strategica della molteplicità in funzione dell’equilibrio sistemico. Il giuspositivismo, divenuto linguaggio egemonico del diritto occidentale, ha così portato a compimento la dissoluzione dell’idea stessa di giustizia. Concependo il diritto come espressione di una volontà normativa priva di limiti ontologici, ha sostituito il criterio della verità con quello della validità formale. Il normativismo kelseniano, fondato sull’autoreferenzialità del sistema giuridico e sulla neutralizzazione dei contenuti etici, ha prodotto un ordinamento in cui non esiste più distinzione fra “ius” e “lex”, fra ciò che è giusto in sé e ciò che è positivamente stabilito. L’effetto di tale dislocazione è duplice: da un lato, la perdita della distinzione tra legittimità e legalità; dall’altro, la consacrazione della libertà come autodeterminazione assoluta, anche contro l’ordine della natura. La libertà moderna, concepita come emancipazione da ogni vincolo naturale e da ogni legge morale oggettiva, si rivela, nel suo sviluppo storico, come strumento di assoggettamento al potere sistemico.

L’individuo post-moderno, apparentemente libero, è in realtà radicalmente eterodiretto: la sua coscienza è formata da dispositivi educativi e mediatici che producono consenso artificiale; la sua volontà è orientata da sistemi normativi che regolano anche gli ambiti più intimi dell’esistenza; la sua capacità deliberativa è compressa entro cornici giuridiche preordinate che ne limitano la portata. In tale condizione, l’autonomia individuale, anziché esprimere la dignità della persona, ne diventa la caricatura tragica. La crisi dell’Occidente non è, dunque, soltanto politica o economica, ma propriamente ontologica e assiologica. L’ordine giuridico ha smarrito la propria ratio essendi, in quanto ha rifiutato il proprio fondamento nella “lex naturalis”, che è partecipazione della creatura razionale alla “lex aeterna”. La legge naturale non è un insieme di precetti imposti dall’alto, ma l’ordine intelligibile dell’essere, riconoscibile dalla retta ragione come misura del giusto. Solo all’interno di questo orizzonte è possibile restituire significato al diritto, alla giustizia, alla libertà. La libertà autentica non è arbitrio, ma conformità dell’agire alla verità dell’essere. È “libertas per veritatem”, non “libertas a veritate”.

L’unica possibilità di restaurazione dell’ordine politico-giuridico passa, allora, attraverso una rifondazione dell’intero sistema normativo sull’ontologia del diritto naturale. Ciò implica una conversione intellettuale radicale: dal positivismo all’essenzialismo, dal formalismo al finalismo, dal soggettivismo al realismo. In assenza di tale ritorno alle radici metafisiche del diritto, ogni tentativo di riforma istituzionale sarà inefficace, giacché continuerà a muoversi entro le coordinate di un paradigma autodistruttivo. Come ammoniva S. Tommaso d’Aquino (1225-1274), “lex humana, si non sit secundum rationem, non est lex sed corruptio legis”: una legge che non sia conforme alla ragione naturale non è legge, ma corruzione della legge.

La democrazia, pertanto, per essere vera, deve riscoprirsi ordinata alla giustizia e la giustizia, per essere reale, deve riconoscere il proprio fondamento nella verità dell’essere. Senza tale fondamento, le istituzioni decadono in strumenti di dominio, i diritti in pretese autoreferenziali, la libertà in simulacro. Il destino delle democrazie occidentali dipende non da una più efficiente distribuzione del potere, ma dal riconoscimento del primato della verità sull’azione, della legge naturale sulla produzione normativa, del bene comune sull’interesse soggettivo. Ogni altro progetto resta privo di sostanza, mera tautologia giuridica in un universo che ha espulso il logos.

Daniele Trabucco

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Relatore

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