Liliane Tami
Mentre i titoli sensazionalistici si rincorrono sui media internazionali, presentando come “scoperta definitiva” l’ipotesi secondo cui l’immagine della Sindone sarebbe stata creata nel Medioevo con un bassorilievo e un software open source, la scienza – quella vera – parla chiaro: la Sindone di Torino è un reperto autentico, intriso di tracce fisiche e storiche che la rendono incompatibile con qualsiasi frode artistica.
Lo studio pubblicato sulla rivista Archaeometry, firmato da Cicero Moraes, ha conquistato la scena mediatica per la sua capacità di confezionare una narrazione semplice, visivamente accattivante e perfettamente adatta ai tempi dei social: un’immagine generata al computer, una stampa 3D, e voilà, il mistero è “risolto”. Peccato che si tratti più di un esercizio di modellazione amatoriale che di una vera indagine scientifica. Lo stesso autore ammette di non aver considerato alcun dato chimico, fisico, biologico o storico, limitandosi a produrre una sagoma basata su fotografie e approssimazioni visive. In sintesi: un gioco digitale, spacciato per scienza.
A smascherare la debolezza metodologica dell’operazione è Emanuela Marinelli, sindonologa e ricercatrice che da decenni studia il sacro lino con rigore documentale. “È un’operazione mediatica priva di fondamento scientifico”, ha dichiarato in un’intervista, ricordando che sulla Sindone sono state condotte analisi microscopiche e chimico-fisiche che hanno rilevato la presenza di sangue umano, pollini mediorientali, tracce di aloe e mirra, e aragonite compatibile con le grotte di Gerusalemme. Inoltre, l’immagine impressa sul telo non è dipinta né incisa: è una disidratazione superficiale della cellulosa del lino, profonda appena un quinto di millesimo di millimetro, simile a un negativo fotografico con proprietà tridimensionali.
Questi dati non sono compatibili con un’opera medievale. Non solo: chi ha avuto il coraggio intellettuale di riesaminare la discussa datazione al carbonio-14 del 1988 – come hanno fatto Marinelli, Casabianca e i docenti di statistica dell’Università di Catania – ha dimostrato che i campioni prelevati erano contaminati da rattoppi successivi. La datazione al Medioevo, dunque, è stata scientificamente smentita.
Ma allora perché uno studio così fragile ha trovato tanto spazio nei media? La risposta è culturale, oltre che ideologica. La Sindone non è solo un oggetto archeologico: è un simbolo potente della fede cristiana, un’icona del dolore, della morte e della speranza. Attaccarla equivale – per alcuni – a colpire il cuore stesso di quella fede. La negazione dell’autenticità della Sindone è, spesso, un modo per sbeffeggiare la religione, o almeno per rimuoverne l’impatto trasformativo. In un’epoca in cui la fede è vissuta con fastidio, ridurre il volto dell’Uomo della Sindone a un artefatto medievale fa comodo a molti.
Il pubblico, però, merita di più. Merita di conoscere la complessità e la ricchezza di un oggetto che sfida le categorie della scienza, della storia e della spiritualità. E la comunità scientifica ha il dovere di trattare la Sindone con serietà, senza piegarsi alla logica dello spettacolo.
La Sindone non è un’immagine fatta al computer. È il silenzioso racconto di un corpo martoriato, di un dolore reale, di un mistero ancora aperto. Ed è proprio questo che, forse, fa così paura.
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