Daniele Trabucco
Il pensiero severiniano, dispiegato in opere decisive come “La struttura originaria” e “Ritorno a Parmenide”, si struttura come tentativo di sottrarre l’essere all’ombra del nulla, restituendogli un rigore di eternità. Ogni ente, in quanto ente, non può non essere; la logica che governa l’essere è ferrea e indistruttibile nel pieno solco della lezione parmenidea, al punto che ciò che chiamiamo “divenire” non è che l’alternarsi dell’ingresso e dell’uscita degli enti dal “cerchio dell’apparire”. L’essere è eterno, il divenire è illusione ottica ed il nichilismo occidentale non è che frutto della scissione originaria tra l’essere e la fede, sempre riaffiorante, nel nulla. Tuttavia, proprio in questa radicalità si cela una contraddizione interna. L’intero edificio severiniano si regge sul presupposto che l’apparire sia il luogo in cui gli enti manifestano la loro eterna consistenza.
In realtá, il linguaggio stesso di Severino tradisce l’impianto: egli afferma che l’ente “entra” nel cerchio dell’apparire e “esce” da esso. Ora, se davvero l’ente è eterno, l’ingresso e l’uscita non possono significare altro che una differenza di stato tra l’apparire e il non-apparire. Che cos’è il “non-apparire”? È forse l’essere? È forse il nulla? Se il non-apparire è semplicemente un altro modo dell’essere, esso rimane pur sempre distinto dall’apparire: e, tuttavia, Severino stesso insiste che non vi è nulla di distinto dall’essere, perché nulla può non essere. Se, al contrario, il non-apparire fosse pura assenza di manifestazione, allora ci troveremmo dinanzi ad una aporia: ciò che è eterno, in quanto è, non potrebbe mai non essere anche come apparente, perché l’essere non è riducibile a una latenza che equivale a un “quasi-non-essere”. Affermare che qualcosa è eterno ma non appare, equivale a dire che ciò che è, non è in atto. La forza del pensiero severiniano sta nell’aver denunciato la contraddizione intrinseca della tradizione occidentale che confonde essere e nulla. Proprio nel tentativo di eliminare il nulla, Severino reintroduce surrettiziamente una forma di non-essere. Quando afferma che l’ente entra nel cerchio dell’apparire, implica che vi sia un prima in cui quell’ente non appare. Ora, questo non apparire” non può essere identificato con l’essere manifesto, né può essere nulla, poiché Severino nega il nulla. Dunque, egli introduce una zona anfibia, un “tertium” che non è né essere apparente, né nulla, ma una sorta di “essere-non-manifesto”. Eppure, proprio questa nozione implica che l’essere possa, in qualche modo, “non essere” come apparire: e questo vanifica la legge severiniana della necessità dell’essere.
Severino, come abbiamo visto sopra, oppone la sua logica alla tradizione aristotelico-tomista, accusandola di aver introdotto surrettiziamente il nulla attraverso la categoria della potenza. Ciò che non è ancora in atto, egli direbbe, non è; dunque la potenza, concepita come possibilità reale, non sarebbe che un sinonimo mascherato del non-essere. Questa accusa è decisiva e occorre mostrarne l’inconsistenza per dissolvere il cuore del sistema severiniano. Aristotele, nella “Metafisica”, e Tommaso d’Aquino, nella sua “Summa Theologiae”, chiariscono che la potenza non è nulla, ma “esse in ordine ad actum”: un principio reale dell’ente, una capacità intrinseca che appartiene all’essere stesso in quanto finito. La potenza non è un “non-essere assoluto”, bensì un “non-ancora”: una modalità positiva dell’essere, che non coincide con l’atto ma che proprio per questo lo esige. In tal senso, la potenza appartiene alla struttura ontologica dell’ente, non come privazione totale, quanto come apertura reale verso un compimento ulteriore. Ora, l’obiezione severiniana potrebbe essere rilanciata: anche ciò che appare è un “modo dell’essere” e non è riducibile al nulla. Se si riconosce che l’apparire non equivale al nulla, perché non concedere a Severino che l’ingresso e l’uscita dal cerchio dell’apparire non costituiscono contraddizione, bensì semplicemente un variare del modo dell’essere? Non si potrebbe sostenere che il non-apparire sia alla stessa stregua della potenza: una modalità dell’essere che non è nulla, ma “altro” dall’essere manifesto?
Qui occorre distinguere con rigore. La differenza tra potenza e apparire sta nel rapporto con l’essere. La potenza è radicata nell’ente stesso: è la sua intrinseca disposizione, il suo principio interno di sviluppo. Non si tratta di un “modo fenomenico”, ma di un principio ontologico. L’apparire severiniano, invece, non è principio intrinseco dell’ente, bensì campo esterno in cui l’ente si manifesta o non si manifesta. Nel caso della potenza, ciò che è in potenza è già parte dell’ente e appartiene al suo essere: il seme, in quanto seme, è realmente aperto all’albero. Nel caso dell’apparire, invece, l’ente eterno può non apparire: ma se non appare, il suo rapporto con l’essere è interrotto e ciò che resta è un “ente senza presenza”, un essere che, per noi e in sé, è indistinguibile dal nulla.
La forza della metafisica classica sta nel mostrare che la potenza, pur non essendo atto, è reale: non un non-essere, ma un modo di essere ordinato all’atto. La debolezza del sistema severiniano, al contrario, sta nel concepire il non-apparire come un modo dell’essere che però, non essendo in alcun rapporto attuale con la manifestazione, è privo di determinatezza. Così, ciò che è detto “eterno” scivola in un limbo che è indistinguibile da un non-essere: un ente che non appare né come atto, né come potenza, ma come assenza. Severino, dunque, confonde due livelli. La potenza non è un “non-apparire”: è un essere in ordine all’apparire in atto. Il non-apparire severiniano non è ordinato a nulla: è semplice sospensione, uscita dalla sfera della presenza. In termini logici, la potenza è un “non-ancora-essere in atto”, mentre il non-apparire è un “non-essere in atto né in potenza”: il primo è principio reale, il secondo è assenza di presenza. Per questo il non-apparire si rivela contraddittorio, mentre la potenza è il segno della contingenza e della partecipazione. Inoltre, la distinzione aristotelico-tomista tra potenza e atto preserva la differenza tra essere assoluto e essere partecipato. Solo Dio, atto puro, non ha potenza. Gli enti finiti, invece, posseggono potenza perché non sono l’essere stesso, ma partecipano all’essere. Severino, eternizzando ogni ente, cancella questa differenza e attribuisce a ciascun ente la perfezione dell’atto puro.
Ora, così facendo non solo nega la contingenza, ma dissolve la gerarchia dell’essere, trasformando ogni cosa in un dio. La potenza, dunque, non è nulla e non è riducibile a un “non-apparire”. Essa è positiva realtà dell’ente, principio interno di divenire. L’apparire severiniano, viceversa, presuppone sempre un “non-apparire” che è contraddittorio, perché non ha statuto ontologico distinto dal nulla. L’uno apre al compimento, l’altro scivola nell’indeterminato. È questa la ragione per cui la metafisica classica, lungi dall’essere nichilistica, offre la sola vera difesa dell’essere contro il nulla: mostrare che il divenire è reale senza essere riducibile al nulla, e che solo l’atto puro è assoluta eternità.
Daniele Trabucco
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