Di Martin N. Badrutt e Charlie Tee
In Nigeria, soprattutto nella fascia centrale — Benue, Plateau, Kaduna, Taraba, Kwara — si continua a morire. Il 13–14 giugno 2025 a Yelwata, nello Stato di Benue, un attacco notturno ha ucciso circa 100 persone, con case bruciate e centinaia di famiglie in fuga. Pochi giorni fa, in Kwara, dodici guardie forestali sono state massacrate. Sono episodi che si ripetono, con una regolarità spaventosa, eppure nel resto del mondo non diventano “notizia”.
È qui che entra in scena un giovane come Lorenzo Caccialupi, 23 anni, studente romano. Lui, insieme a gruppi di youtuber e tiktoker indipendenti, prende la parola dove i grandi media scelgono il silenzio.
E la domanda, inevitabile, ci ferisce: perché deve toccare a un ragazzo, e non alle redazioni, il compito di raccontare?
### Il silenzio dei media
1. Il frame rassicurante. Nei giornali internazionali, le stragi nigeriane vengono incasellate come “conflitti tra pastori e contadini” o “banditismo”. È un modo per ridurre la portata religiosa e identitaria, e per semplificare. Ma dietro quelle etichette ci sono comunità cristiane svuotate, chiese bruciate, villaggi distrutti.
2. La parola tabù: genocidio. Per i governi e per parte dei media, parlare di “genocidio” è troppo impegnativo. Richiede prove di intenzione sistematica. Così si resta intrappolati in una disputa semantica che blocca la narrazione: si discute sulle parole, mentre la gente muore.
3. Numeri che spengono empatia. 100 morti, 200, 7.000 in un anno: i numeri enormi finiscono per annullare l’impatto. Una vittima è una storia, cento sono una statistica. Ed è proprio in questo vuoto che cala il silenzio.
4. Assenza di protagonisti globali. La Nigeria non è un fronte geopolitico “sexy”: non c’è una superpotenza diretta coinvolta, non c’è una cornice pronta a catturare interesse. Così i villaggi del Middle Belt bruciano nell’indifferenza.
5. Accesso difficile. Aree remote, insicure, senza inviati. E senza immagini, senza telecamere, le tragedie scompaiono dal feed.
### Perché siamo diventati sordi al dolore
Qui entra in gioco un meccanismo che riguarda tutti, noi e il pubblico. La psicologia lo spiega con parole dure: desensibilizzazione, compassion fade, saturazione mediatica.
In poche parole: quando i fulmini cadono ogni notte, il cuore impara a non tremare più.
Immagina: per un volto singolo piangi, per dieci ancora senti. Ma quando diventano cento, mille, restano solo numeri — e i numeri non sanno piangere.
Così ci difendiamo: scrolliamo lo schermo, evitiamo le news, ci rifugiamo in polemiche più facili, più vicine. Gli algoritmi ci spingono lì, verso i contenuti che indignano di più, ma che costano meno fatica. Intanto le tragedie reali, lontane, vengono archiviate come “rumore di fondo”.
Il rischio non è solo la violenza che accade, ma l’assuefazione al suo eco. Ed è questa la vera sconfitta del nostro tempo: il cuore che impara a non sentire.
### La responsabilità
Se tocca a un ragazzo di 23 anni sollevare il velo, significa che troppe voci si sono arrese. E allora la domanda diventa responsabilità: non è compito nostro, come giornalisti, cronisti, cittadini, restituire voce a chi non ce l’ha?
Se non siamo noi a raccontare questi massacri, chi lo farà?
Se accettiamo il silenzio, non siamo solo spettatori: diventiamo complici.
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