L’antica distinzione tra “auctoritas” e “potestas” non fu un semplice artificio concettuale o una convenzione giuridica nata dalla prassi istituzionale romana, ma la manifestazione visibile di una verità invisibile, il riflesso terreno di un ordine superiore che conferiva senso e limite all’agire umano. Essa custodiva nel cuore della politica la consapevolezza che il potere non è mai originario, ma sempre derivato, non nasce da sé, bensì partecipa di un principio che lo precede e lo fonda. Nell’ “auctoritas” risplendeva la luce del vero come fondamento del legittimo, mentre la “potestas” era la sua espressione operativa, il braccio esecutivo del principio nell’ordine temporale. Il potere, in tal senso, era mediazione tra l’essere e il divenire, tra l’eterno e il contingente, e la giustizia consisteva precisamente nel mantenere questa trasparenza, nel lasciare che il principio si facesse presenza nella storia.
La modernità, dissolvendo tale distinzione, ha spezzato il legame ontologico che univa la verità all’autorità e l’autorità al potere. Ha posto la volontà al posto dell’essere, l’arbitrio al posto della verità, la decisione al posto del principio. Il potere, emancipato da ogni riferimento trascendente, si è reso formalmente illimitato ma sostanzialmente vuoto, incapace di giustificarsi se non attraverso se stesso. La norma ha sostituito il “logos” e la regolazione infinita è divenuta il surrogato del senso. Dove il reale non è più percepito come portatore di significato, tutto deve essere prodotto, organizzato, amministrato: l’uomo moderno si ritrova così costretto a costruire incessantemente ciò che non riesce più a comprendere. Da qui l’inflazione della legge, la moltiplicazione delle procedure, la tecnicizzazione della vita. L’”autoritarismo democratico” è l’inevitabile risultato di questo vuoto metafisico: esso nasce come tentativo di trattenere con la forza l’unità che solo la verità potrebbe generare spontaneamente. È il paradosso della modernità politica: quanto più la libertà si afferma come autosufficienza, tanto più necessita di vincoli esterni per sopravvivere; quanto più si proclama emancipata dall’essere, tanto più cade schiava della volontà di potenza. In questa dinamica autodistruttiva, l’uomo moderno ha smarrito la misura del proprio agire, confondendo il potere con la creazione, l’autorità con il dominio, la legge con la forza.
Tuttavia, il ritorno dell’ “auctoritas” non significa nostalgia di un passato politico né imposizione di un potere teocratico: esso indica, piuttosto, la riapertura dello spazio metafisico della partecipazione, la riscoperta che il vero è ciò in cui l’uomo è chiamato a inserirsi, non ciò che egli può produrre. L’autorità autentica non è mai invenzione né costruzione, ma rivelazione: essa non si impone come volontà, ma si manifesta come luce. È il volto dell’essere che si riflette nell’azione giusta, la trasparenza del principio nel governo delle cose umane. In questo senso, l’autorità è la forma visibile della verità: dove essa opera, il potere ritrova il proprio limite, la legge la propria misura, la libertà la propria sostanza. Senza questo riferimento trascendente, l’uomo rimane imprigionato nel cerchio dell’immanenza, dove la volontà non conosce più direzione e la politica si riduce a pura tecnica dell’indifferenza. Quando la verità è rimossa, ogni valore è equivalente, ogni scopo intercambiabile, ogni mezzo legittimo: e la politica, perduto il senso del giusto e non più arte regale, diventa amministrazione del nulla.
L’immanenza, per sua natura, tende alla totalità, poiché, negando l’essere come fondamento, deve sostituirlo con il controllo assoluto. L’autoritarismo democratico è, dunque, la configurazione politica di questa “hybris” ontologica: una forma di totalitarismo diffuso, anonimo, in cui la volontà collettiva si erge a principio supremo. Il suo superamento non passa attraverso una riforma istituzionale, ma attraverso una metanoia dello sguardo: un mutamento della coscienza, la riscoperta che l’essere precede il fare, che la verità fonda la libertà, che l’autorità non nasce dal consenso, ma dal contatto con ciò che non può essere costruito.
Quando l’uomo tornerà a comprendere che il potere non è origine, ma partecipazione, allora la politica ritroverà il suo volto autentico: non dominio, ma servizio all’essere; non affermazione di sé, ma custodia del principio. Solo in questa riconciliazione con la verità l’ordine storico potrà riacquistare la misura perduta, e la libertà dell’uomo ritrovare il suo senso. Poiché la vera liberazione non consiste nel potere di fare qualsiasi cosa, ma nel poter essere secondo verità. In questo ritorno all’ordine dell’essere, il potere si fa giusto, la legge reale, la libertà vera: e la storia, da cieca corsa della volontà, torna ad essere trasparenza dell’eterno nel tempo.
Daniele Trabucco
Nella pianura bergamasca, verso la fine dell’Ottocento, alcune famiglie di contadini vivono insieme in una…
I versi liberi di Lorella Giacomini colpiscono l’animo del lettore, come dardi gentili ma acuminati, che avvolgono…
immagine Pixabay (da Wikipedia) Esordisco citando un detto di Nietzsche: “l’uomo è fatto per la…
Il romanzo di Dostoevskij è ambientato a Roulettenburg, una cittadina immaginaria in Germania, famosa per…
Il lusso sfrenato è di gradito a Dio. Nella Bibbia, la parola diretta declamata dal…
di Billy the Kid 🔫 Da più parti nella galassia cattolica si sono alzate voci…
This website uses cookies.