La morte di Grigorij Efimovič Rasputin, uno degli episodi più celebri e drammatici della Russia zarista:
San Pietroburgo, inverno del 1916. La città è immersa nel gelo, e nelle strade il vento fischia come una voce di presagio. Nella grande casa del principe Feliks Jusupov, sulle rive della Moika, un piccolo gruppo di uomini complotta in silenzio. Tutti condividono un obiettivo: eliminare Rasputin, l’uomo che, a loro dire, ha stregato la zarina e corrotto il cuore stesso dell’Impero russo.
Rasputin, il “monaco pazzo”, aveva conquistato la fiducia di Aleksandra Fëdorovna, moglie dello zar Nicola II, grazie alla misteriosa capacità di alleviare le sofferenze del piccolo Aleksiej, l’erede malato di emofilia. Ma la sua influenza politica, i suoi eccessi, e le voci di dissolutezza e manipolazione avevano seminato odio e paura tra i nobili e la corte.
È la notte tra il 16 e il 17 dicembre 1916 (secondo il calendario giuliano, 29-30 dicembre per quello gregoriano). Jusupov, fingendosi devoto amico, invita Rasputin a casa sua, dicendogli che la moglie, la bella Irina, desidera conoscerlo. Lusingato e curioso, Rasputin accetta. Indossa il suo abito scuro, si benedice e sale sulla slitta che lo porta nel cuore della notte ghiacciata verso la sua ultima ora.
Nelle cantine del palazzo, gli attendono il granduca Dmitrij Pavlovič, Vladimir Purishkevich (deputato ultranazionalista), il medico Lazavert, e pochi altri cospiratori. Hanno preparato vino e dolci, abbondantemente avvelenati con cianuro.
Quando Rasputin arriva, Jusupov lo accoglie calorosamente. Lo conduce nella cantina arredata con tappeti e tende, e gli offre pasticcini e vino dolce. Rasputin mangia, beve, sorride. Passano i minuti. Poi un’ora. Ma nulla accade. Il veleno sembra non avere effetto. Jusupov, sempre più nervoso, si ritira al piano di sopra, dove i complici lo aspettano con impazienza.
— “È ancora vivo. Non succede niente.”
— “Allora bisogna finirlo ora.”
Rasputin, rimasto solo per un momento, si guarda intorno e inizia a sospettare qualcosa. Jusupov torna, con in mano una pistola Browning. Tremando, gli spara al petto. Rasputin crolla sul tappeto, immobile. Convinti di averlo ucciso, i congiurati brindano al successo.
Ma quando Jusupov scende di nuovo per contemplare il corpo, Rasputin apre gli occhi. Si alza, barcolla, fissa il principe con uno sguardo di furore e sussurra:
— “Feliks… racconterò tutto alla zarina…”
Poi fugge verso la porta, inseguito dai suoi assassini terrorizzati.
Purishkevich spara di nuovo, colpendolo alla schiena e poi alla testa. Rasputin cade nella neve, rantolando. È l’alba di San Pietroburgo, e la congiura è compiuta. I nobili avvolgono il corpo in un tappeto e lo trascinano fino al fiume Neva, dove un buco nel ghiaccio attende.
Quando il corpo viene ritrovato giorni dopo, il ghiaccio lo ha conservato. L’autopsia rivela un dettaglio inquietante: nei polmoni di Rasputin c’è acqua — segno che, forse, era ancora vivo quando venne gettato nel fiume.
Con la sua morte non si spense però la leggenda. Alcuni lo considerarono un santo, altri un demone. I contadini pregarono sulla sua tomba, mentre gli aristocratici si rallegrarono del suo silenzio. Ma pochi mesi dopo, anche l’Impero che Rasputin aveva influenzato così profondamente sarebbe crollato, travolto dalla Rivoluzione del 1917.
E così, nella neve e nel mistero, finì l’uomo che aveva sfidato i potenti, sedotto gli umili e, per un breve e terribile momento, fatto tremare un impero.
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