Cultura

Licio Gelli, il gran burattinaio nell’oscurita’

Nel cuore della Toscana, a Pistoia, nel 1919, nasce un bambino destinato a diventare il simbolo più oscuro del potere occulto italiano. Si chiama Licio Gelli. Cresce in un Paese dove il fascismo modella le anime e piega le coscienze. Da giovane veste la camicia nera e parte per la Spagna di Franco, dove la guerra civile è un laboratorio di ideologie e sangue. Da lì torna con una certezza: il potere si conquista non solo con la forza, ma soprattutto con la rete invisibile dei legami.

Dopo la guerra, mentre l’Italia si ricostruisce tra macerie e illusioni democratiche, Gelli si muove come un fantasma tra industrie, uffici e salotti romani. Colleziona amicizie, promesse, favori. È un uomo di mondo, elegante e cordiale, ma con occhi che non sorridono mai del tutto. È un uomo che “sa”.

Negli anni Sessanta e Settanta, il suo nome comincia a echeggiare nei corridoi del potere. È lui a tessere la tela della Loggia massonica Propaganda Due (P2), che da società segreta diventa il cuore pulsante di un potere parallelo. Ministri, generali, banchieri, giornalisti: tutti, in silenzio, fanno parte della sua rete. Sul suo tavolo, nella villa “Wanda” di Arezzo, i fascicoli si accumulano come fili d’un burattinaio che muove il Paese da dietro il sipario.

Poi arriva il 1981. Gli investigatori perquisiscono la villa. In un cassetto trovano un elenco di 962 nomi. È un terremoto. Il Parlamento, l’esercito, i servizi segreti, le banche: l’Italia intera sembra avvolta nel manto della P2.
Gelli fugge in Sud America, compare e scompare, come un personaggio uscito da un romanzo di spionaggio.

Ma la sua ombra più lunga è quella che tocca il Banco Ambrosiano e la tragica fine del suo presidente, Roberto Calvi.
Calvi, l’“uomo di Dio” della finanza vaticana, era anche l’uomo della P2. Quando il Banco crolla sotto il peso dei fondi neri e dei segreti, Calvi scappa a Londra, terrorizzato, convinto che qualcuno lo voglia eliminare.
Il 18 giugno 1982, lo trovano impiccato sotto il ponte dei Frati Neri, sul Tamigi. Nelle tasche, mattoni e banconote. Un messaggio più che una morte.
Dietro di lui, come un’ombra che non svanisce, aleggia il nome di Licio Gelli.

Intanto, in Italia, un’altra tragedia scuote il Paese: la strage di Bologna del 2 agosto 1980, ottantacinque morti in una mattina d’estate. Le indagini, a fatica, scavano dentro i servizi segreti deviati, le trame eversive, la P2. E ancora una volta, il nome di Gelli ricorre come un’eco sinistra. Non fu mai condannato per la strage, ma la giustizia lo riconobbe colpevole di depistaggio, di aver inquinato la verità.

Condannato per bancarotta fraudolenta, falso, reati finanziari, arrestato, evaso, ripreso, rilasciato: la sua vita divenne una giostra di processi e fughe. Ma Gelli, sempre impeccabile nel vestito e nel sorriso, sembrava più potente del tempo stesso.
Diceva di essere solo “un patriota”, un uomo che aveva cercato di salvare l’Italia dal caos. Ma molti vedevano in lui il regista dell’Italia segreta, l’uomo delle stragi, dei conti occulti, dei misteri irrisolti.

Negli ultimi anni, la sua villa divenne il suo palcoscenico finale: piena di busti, specchi e cimeli, un mausoleo di marmo e silenzio. Lì riceveva giornalisti e curiosi, parlando con voce bassa, come un vecchio attore che conosce ogni battuta del dramma, ma non svela mai il finale.

Morì nel dicembre 2015, a 96 anni. Nessuna confessione, nessuna rivelazione.
Solo il silenzio — e il sospetto che molte verità dell’Italia repubblicana siano morte con lui.

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