L’Operazione Grimm della polizia Svedese ha scoperchiato qualcosa che va oltre la cronaca nera e persino oltre il concetto tradizionale di criminalità organizzata. Quello che emerge dalle quasi duecento persone arrestate in nove Paesi europei non è solo un sistema criminale, ma un nuovo modello di violenza: globale, digitale, disincarnato. Un modello in cui a premere il grilletto sono spesso dei minorenni, mentre chi decide, paga e ordina resta lontano, al riparo, soprattutto negli Emirati Arabi Uniti.
I coordinatori si trovano negli Emirati Arabi Uniti, in Iran, in Iraq o in Turchia.
L’Europa, e in particolare la Svezia, non è il centro del potere criminale, ma il suo terreno operativo. È qui che agiscono i ragazzi e le ragazze reclutati online, è qui che avvengono gli omicidi, le esplosioni, gli incendi. Ma le regie, i mandanti, i coordinatori risiedono perlopiù fuori dall’Unione Europea, in una geografia che comprende Emirati, ma anche Iran, Iraq e Turchia. È una delocalizzazione del crimine che sfrutta le zone grigie del diritto internazionale e rende l’estradizione un percorso lento, spesso impossibile.
La Svezia è diventata il laboratorio più visibile di questo fenomeno perché lì l’uso di minorenni come sicari è esploso con una brutalità che ha pochi precedenti. Ma parlare di “epicentro svedese” è fuorviante. La Svezia è la manovalanza, non la cabina di regia. I ragazzi che sparano, lanciano granate o incendiano case non decidono nulla: eseguono.
Il reclutamento avviene quasi sempre online. Tutto inizia sui social più frequentati dagli adolescenti: TikTok, Instagram, Snapchat. I primi contatti sono ambigui, spesso mascherati da amicizie o da proposte vaghe. Poi si passa su Telegram o Signal, dove il linguaggio cambia e la violenza viene normalizzata. Qui non si parla di omicidi o attentati, ma di “missioni”. Ed è proprio questa parola a segnare il salto più inquietante.
Il crimine viene presentato come un gioco. O meglio, viene costruito secondo le stesse logiche dei videogiochi. Ci sono incarichi da portare a termine, obiettivi chiari, ricompense economiche, livelli da superare. A volte vengono persino offerte scelte multiple, come nel caso raccontato dal procuratore di Stoccolma: una ragazza di quindici anni poteva decidere se sparare alla porta di casa della vittima o direttamente alla testa. Ha scelto la testa.
Questo meccanismo si chiama gamification: l’applicazione delle dinamiche ludiche a contesti reali. In questo caso, alla violenza. Non si chiede a un adolescente di uccidere una persona, ma di completare una missione. Non gli si chiede di entrare in una gang, ma di accettare un “lavoretto”. Il linguaggio svuota l’atto della sua gravità morale. La vittima scompare. Resta solo la performance.
Funziona soprattutto con i più giovani perché intercetta fragilità profonde. Vengono reclutati ragazzi con storie familiari difficili, disturbi neuropsichiatrici, problemi cognitivi, oppure minori inseriti in strutture residenziali statali. Sono adolescenti soli, spesso invisibili, che improvvisamente si sentono scelti, riconosciuti, valorizzati. Le ragazze, in particolare, vengono sempre più coinvolte perché meno sospettate e perché, in un contesto ipercompetitivo, sentono il bisogno di dimostrare di essere all’altezza, se non addirittura più “efficienti” dei coetanei maschi.
Una volta entrati nella rete, uscire è difficilissimo. I ragazzi vengono ricattati, costretti a inviare foto dei documenti, minacciati con violenze contro i familiari. Se vengono arrestati, spesso viene detto loro che devono “ripagare” il danno economico subito dalla gang. È così che il debito diventa una catena e la violenza una condanna a ripetizione.
In questo sistema, i minorenni sono completamente sacrificabili. Se sbagliano, se esitano, se falliscono, vengono traditi dagli stessi mandanti. Il caso di Marsiglia, dove un quindicenne ha ucciso un tassista innocente ed è stato poi denunciato dal proprio committente perché “non aveva portato a termine il lavoro”, è emblematico. La vita del ragazzo vale meno del successo della missione.
Gli investigatori parlano ormai apertamente di “violenza come servizio”. Non più bande che si affrontano per il controllo del territorio, ma una violenza su commissione, acquistabile a distanza, eseguita da bambini. Un modello che si sta diffondendo anche in Francia, Germania, Belgio, Spagna e Regno Unito, con età sempre più basse: in alcuni casi si parla di ragazzi di undici o dodici anni.
Eppure, in questo quadro cupissimo, emergono segnali che non vanno ignorati. Le campagne di prevenzione stanno funzionando. Sempre più genitori scoprono piani criminali nei telefoni dei figli e chiedono aiuto. Le linee di assistenza per minori registrano un aumento delle chiamate di ragazzi che vogliono uscire dalle gang. È un dato piccolo rispetto alla vastità del fenomeno, ma decisivo: significa che molti di questi adolescenti non sono mostri, ma prigionieri.
L’Operazione Grimm non racconta solo una nuova criminalità. Racconta una crisi profonda del nostro tempo: una generazione cresciuta in un mondo digitale che sa premiare, classificare, gamificare tutto, ma fatica a offrire senso, legami e protezione. Spezzare queste reti non significa solo arrestare i mandanti nascosti negli Emirati. Significa soprattutto impedire che altri bambini vengano trasformati in personaggi di un gioco dove si muore davvero.
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