di Roberto Manzi
Author | PhD, Communication Sciences | Lic. Dogmatic Theology
C’è un errore che si fa sempre, quando un uomo di Curia parla dopo anni di silenzio: si pensa alla rivalsa personale. È l’errore più comodo e il meno intelligente. L’intervista di Georg Gänswein rilasciata a Il Tempo sotto la nuova direzione di Daniele Capezzone – e ripresa integralmente da MiL – non è un memoir rancoroso, né una confessione sentimentale. È piuttosto un atto di chiarezza tardiva, di quelli che arrivano quando il potere ha già fatto il suo corso e la storia può finalmente essere rimessa in fila. Vediamo il perché.
Gänswein parla da una posizione unica. È stato il più stretto collaboratore di Benedetto XVI, poi Prefetto della Casa Pontificia, quindi uomo reso improvvisamente superfluo sotto Papa Francesco. Il suo non è un caso biografico, ma un fatto politico. Nella Chiesa, come in ogni struttura di potere, gli uomini si spostano per ciò che rappresentano, non solo per ciò che fanno.
Il racconto del congedo di Gänswein dopo la morte di Benedetto XVI è straordinariamente istruttivo. Rimandato nella sua diocesi, lasciato senza incarico, sospeso in una sorta di limbo. Non è persecuzione, ma qualcosa di più raffinato. È neutralizzazione simbolica. È il modo più efficace per dire: questa stagione è finita, e chi la incarnava deve scomparire dal campo visivo. Che questo trattamento sia stato giudicato eccessivo anche da ambienti non ostili a Bergoglio dice molto. Non era routine. Era scelta.
Il cuore dell’intervista non è la biografia di Gänswein, ma Benedetto XVI. Ed è soprattutto la liturgia. Qui sta il punto che imbarazza, perché è difficilmente controbattibile. Ratzinger volle che l’Opera Omnia iniziasse dalla Liturgia. Non dalla teologia, non dall’ecclesiologia, non dalla dottrina. Dalla Liturgia. Chi non capisce la portata di questa decisione non ha capito Ratzinger, e probabilmente non ha capito neppure la crisi della Chiesa contemporanea. Scriveva Romano Amerio in Iota Unum quarant’anni fa: «Quando il culto non è più ordinato primariamente a Dio, ma all’uomo e alla comunità, esso perde la sua natura teologica e diventa fenomeno sociologico». Il filosofo e teologo luganese aveva intuito in tempi non sospetti che la liturgia non è un problema di gusti. È una questione di ordine simbolico. È il luogo in cui si decide se Dio è al centro o ai margini, se la Chiesa adora o intrattiene, se il sacro precede l’uomo o l’uomo prende il posto del sacro. Benedetto lo sapeva. E lo ha detto, con l’unico linguaggio che gli restava: l’ordine dei suoi scritti.
Un altro passaggio dell’intervista ha poi il sapore dell’inchiesta: le prediche del Papa emerito registrate senza che lui lo sapesse. Letta male, sembra una disobbedienza. Letta bene, è una forma di resistenza culturale silenziosa. Gänswein e le Memores Domini – le quattro laiche consacrate che hanno vissuto accanto a Benedetto XVI negli anni del pontificato emerito al Monastero Mater Ecclesiae – capirono che quelle omelie non erano parole domestiche, ma un lascito. Non registrarono per curiosità, ma per responsabilità. E il fatto che quel materiale sia poi confluito ufficialmente nella Fondazione Ratzinger – di cui il Cardinale Gerhard Ludwig Müller è stato uno dei custodi qualificati, per mandato, competenza e prossimità personale al Papa teologo – conferma che l’intuizione era corretta.
C’è poi il Ratzinger profeta, richiamato attraverso la lectio del 2004 sull’odio di sé dell’Occidente. Qui non siamo nel campo delle opinioni, ma delle diagnosi riuscite. Una Europa senza amore per sé stessa, un multiculturalismo senza asse identitario, il sacro espulso dallo spazio pubblico. Tutto previsto, tutto scritto, tutto ignorato. Non perché sbagliato, ma perché incompatibile con l’ottimismo progressista che ha dominato per anni anche in ambito ecclesiale.
E infine Papa Leone XIV. Gänswein non fa elogi, non distribuisce investiture. Registra un cambio di tono, di postura, di centro di gravità. Centralità di Cristo. Parole che, oggi, suonano quasi rivoluzionarie per quanto erano diventate ovvie e insieme assenti. Non è ancora una svolta storica. È un segnale. Ma i segnali, nella Chiesa, contano più dei programmi. Qui Gänswein non chiede assoluzioni. Fa qualcosa di più sofisticato: lascia tracce. E chi vorrà capire cosa è successo davvero nella Chiesa degli ultimi vent’anni, da Benedetto a Francesco fino a Leone XIV, dovrà passare anche da qui. Non per credere. Ma per sapere.
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