Dopo più di mezzo secolo di proibizionismo federale, gli Stati Uniti compiono un passo che segna un cambio di paradigma nella politica sulle droghe. Il presidente Donald Trump ha firmato una legge che riclassifica la marijuana dalla Schedule I alla Schedule III, sancendo il mutamento più significativo dalla stagione della war on drugs degli anni Settanta. Non si tratta di una legalizzazione totale, ma di una decisione che ridefinisce profondamente il rapporto tra Stato, scienza e cannabis.
Nella classificazione federale delle sostanze controllate, la Schedule I è riservata alle droghe considerate prive di uso medico riconosciuto e con alto potenziale di abuso, come eroina e LSD. La cannabis, per decenni collocata in questa categoria, viene ora formalmente riconosciuta come sostanza con uso medico accettato.
Con l’ingresso in Schedule III, la marijuana viene affiancata a farmaci regolamentati come ketamina, testosterone e alcuni analgesici: sostanze che comportano rischi, ma che la legge ammette come terapeuticamente utili se prescritte e controllate.
La precedente classificazione aveva imposto limiti severissimi alla ricerca. Ottenere autorizzazioni era complesso, i finanziamenti scarsi, l’accesso al materiale di studio fortemente regolato. Il nuovo status cambia radicalmente lo scenario:
diventa più semplice avviare studi clinici,
si riducono gli ostacoli burocratici per università e laboratori,
si apre la strada a ricerche più solide su dolore cronico, epilessia, nausea da chemioterapia, disturbi neurologici e altre patologie.
Per la comunità scientifica americana è un riconoscimento atteso da anni: la cannabis esce dall’area dell’ideologia e rientra, almeno in parte, nel campo della verifica empirica.
La riclassificazione ha anche un impatto rilevante sul piano finanziario. Le imprese del settore cannabis, finora penalizzate, possono ora accedere a detrazioni fiscali federali prima vietate. Questo migliora la sostenibilità delle aziende che operano legalmente a livello statale e rende il settore più appetibile per investitori e mercati finanziari.
Gli analisti parlano di possibili effetti a catena: consolidamento delle imprese, maggiore trasparenza, nuove opportunità occupazionali e un progressivo allineamento tra economia reale e quadro normativo.
Nonostante la portata storica della decisione, alcuni punti restano fermi. La marijuana ricreativa rimane illegale a livello federale. Ogni Stato continuerà a decidere autonomamente su legalizzazione, vendita e consumo. Il provvedimento non cancella il mosaico normativo americano, ma introduce un elemento strutturale che potrebbe facilitarne, in futuro, una maggiore coerenza.
La scelta dell’amministrazione statunitense rappresenta molto più di un aggiornamento tecnico. È un’ammissione ufficiale che la cannabis non può essere equiparata alle droghe più pericolose. È il segnale di un cambio di mentalità nella politica antidroga americana, che prende atto dei dati scientifici e delle trasformazioni sociali. Ed è un precedente destinato a pesare anche oltre i confini degli Stati Uniti, influenzando altri Paesi e futuri governi.
Dopo mezzo secolo di rigidità federale, Washington riconosce che la cannabis ha un valore medico e scientifico. Non è la fine del dibattito, ma l’inizio di una nuova fase: più complessa, più pragmatica, e forse più onesta nel rapporto tra legge, scienza e società.
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