Le immagini delle proteste degli agricoltori a Bruxelles, davanti al Parlamento europeo, non sono un fulmine a ciel sereno. Sono piuttosto il risultato prevedibile di anni di politiche agricole percepite come lontane dalla realtà dei campi, delle stalle e dei piccoli produttori. Trattori, striscioni e rabbia non rappresentano una rivolta improvvisa, ma l’esplosione di un disagio strutturale che attraversa l’Europa rurale.
Al centro della protesta c’è un modello agricolo che molti operatori giudicano insostenibile. Gli agricoltori denunciano l’aumento dei costi di produzione, la burocrazia crescente legata alle politiche verdi, la concorrenza di prodotti importati da Paesi extraeuropei che non rispettano gli stessi standard ambientali e sanitari imposti in Europa. Accordi commerciali internazionali, approvati dalle maggioranze che sostengono la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, vengono vissuti come una minaccia diretta: aprono il mercato europeo a merci a basso costo, comprimendo ulteriormente i margini di chi produce secondo regole molto più stringenti.
A questo si aggiunge un sentimento di abbandono politico. Molti agricoltori ritengono che le loro istanze non vengano ascoltate, mentre le decisioni strategiche favorirebbero grandi gruppi industriali, finanza e lobby internazionali. In questo quadro, anche i governi nazionali finiscono nel mirino. In Italia, le critiche investono l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, accusato di sostenere in sede europea scelte che, nei fatti, penalizzano il settore primario.
Le proteste agricole si intrecciano con un malcontento più ampio verso la direzione politica dell’Unione Europea. Molti manifestanti denunciano una leadership percepita come più attenta alle spese militari, agli equilibri geopolitici e ai mercati finanziari che alla tutela delle economie locali e delle future generazioni. L’agricoltura diventa così il simbolo di un conflitto più profondo: quello tra decisioni prese dall’alto e bisogni concreti delle comunità.
Le richieste degli agricoltori sono chiare:
regole uguali per tutti, anche per i prodotti importati;
una revisione delle politiche ambientali che tenga conto della sostenibilità economica;
prezzi equi lungo la filiera, che garantiscano redditi dignitosi;
meno burocrazia e più ascolto nei processi decisionali;
una politica agricola che consideri il settore strategico, non sacrificabile.
Non si tratta di rifiutare la transizione ecologica, ma di renderla praticabile. Senza agricoltori, la transizione resta uno slogan.
Le scene di Bruxelles potrebbero essere solo l’inizio se non si interviene in modo strutturale. Una prima risposta passa da una revisione degli accordi commerciali e da una difesa più forte della produzione europea. Serve poi un riequilibrio della Politica Agricola Comune, che premi davvero chi produce e non solo chi compila moduli. Infine, è necessaria una svolta politica: rimettere al centro il lavoro, i territori e la sovranità alimentare.
Le proteste degli agricoltori non sono un capriccio corporativo, ma un campanello d’allarme. Ignorarle significa accettare il declino di un settore vitale per l’Europa. Ascoltarle, invece, può essere l’occasione per ripensare un modello di sviluppo che oggi mostra tutte le sue crepe.
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