Ospiti

L’inarrestabile cambiamento

Athena Demenga

Smetto, quanto meno ci provo, a pensare il mondo di tutti, differenziati, per introiettarmi, sarà l’anima dell’inverno, in un ‘io’ che è pensabile come unico, piccolo o grande che sia. Il pensiero si svincola dai dati, quelli di grafici e statistiche, che rammento sempre bene a quanto siano soggetti alle inevitabili limitazioni contestuali, che sono sì giardino di norme utili e che dunque donano la libertà più vera, ma imbriglierebbero la cosa meno tanguta proprio dalle considerazioni relative alla libertà.

D’inverno il tema del clima e il relativo surriscaldamento tendono ancor di più a passare in sordina (in secondo piano sarebbe ancora un successo), fino a quando il contesto ambientale dell’intorno più prossimo è, o sembra, privilegio. L’idea che abito in una delle zone privilegiate del mondo ancora persiste, malgrado sono in atto miriadi e notevoli provvedimenti per mantenere a mio avviso forse un po’ statica l’immagine che ho della Svizzera verde, o direi anche bianca, or ora, in nome di tradizioni, abitudini, sviluppi economici, ma non nel Nome di Esso (fosse anche Madre Natura, mi si perdoni il genere), apparentemente mistificato, eppure soggiacente a ogni cosa. Oltre a ogni Credo.

Ieri la temperatura, oggi i centimetri di neve, domani l’insolazione e il suo ciclo spumeggiante, sono le chiavi di lettura dell’ineluttabilità dell’inarrestabile cambiamento in atto da… sempre, e che per fortuna è a sua volta adattamento; quest’ultimo sì, vero maestro. Allora il nuovo processo mentale da considerare è questo, in sequenza: dalla crisi al cambiamento all’adattamento. Per dare una traccia più ampia al pensiero. Adattarsi, in fondo, cosa è se non un osmotico inglobare, rilasciare, integrare, snellire, semplificare, resilire. Anche se mi sono accorta che la resilienza a volte conduce a un’inerzia non sempre apprezzabile. Ma è apparenza.

Tra i suoi exploit più o meno virulenti, non sempre riducibili a disastri naturali, alle sue incessanti presenze, o assenze, l’infinito ciclo dell’acqua nelle sue plurimanifestazioni la devo considerare per ciò che è: praticamente tutto, o quasi, ciò di cui sono fatta, io come ogni cosa (perché sì, la considero anche particelle di ossigeno e di idrogeno, se bastassero almeno un po’ a dare il senso di cosa può racchiudere o, meglio, includere). È soggetta a lassi di tempo percepiti eterogenei: dal far bollire dell’acqua avvalendomi della neve alla capanna Santa Margherita alla durata di un’era glaciale alla sua esistenza oltre la sua aggregazione da ché c’è questo pianeta. Eppure non è l’inizio.

Pensavo fosse, il clima e il suo cambiamento, qualcosa di fissabile, databile, qualcosa a cui prepararsi con la dovuta pianificazione. E invece mi crogiolo nel paradosso dell’anidride carbonica che scaturisce dai ghiacciai che si sciolgono, a sua volta racchiusa da millenni or sono dove l’inquinamento era impossibile, umanamente. Dunque non solo inarrestabile, ma anche in accelerazione per sua intrinseca natura, nelle metropoli e sue aree limitrofe e globalmente: l’aria umanamente meno salubre, l’oceano in via di acidificazione, i terreni contaminati e spremuti nelle loro capacità, una paletta più ampia di temperature possibili anche dove mai nemmeno ipotizzato. C’è un potenziale interessante su molti frangenti in tutto ciò, in barba alle lamentele che provengono dalle cartoline del mondo di un secolo fa. Il cambiamento, che scherzo: bello, e serio.

Con pensiero liminale, dove non sono accettabili i tassonomismi, mi trovo a contemplare dei ponti tra i regni planetari, per scovare ciò che è taciuto, ciò che fa eccezione. La lava che diviene liquida, eppure giunta al mare, o al lago, si rifà roccia. Il muschio sulle pareti delle rocce calcaree che, tra acqua e ossidazione – il carbonato di calcio –, trasmuta il regno vegetale in regno minerale. Non c’è argomentazione scientifica che possa soddisfare, o sopperire, al fascino di tali eventi. Anzi, preferisco tapparmi le orecchie, per non farmi derubare della magia intrinseca, per non dare al pensiero condizionamenti involuti. Ma la scienza può essere ampiamente usata, bando ai contrari a prescindere, per favorire modifiche che comportano non solo resilienza delle specie, ma anche salubrità dell’ecumene. Che tale manipolazione possa giungere al sistema vitale umano per le stesse finalità è cosa sperata, ma da scoprire. L’adattamento di tutto quanto costituisce lo strato prossimale del globo.

Se avessi una bacchetta magica, farei scomparire le manipolazioni meteorologiche e geologiche, benzina e cherosene, esasperanti estrazioni terriere, farei sparire anche il terrorismo, lo sfruttamento animale, poi ottimizzerei il cibo con la dovuta intelligenza per non intercorrere in minacce di depauperamento, non me ne vogliano i golosi schiavi dell’iperconsumismo: anche io, a dover scegliere – penso a una prigionia della fame –, opterei per un orso di gomma (le caramelle, inteso) invece che un insetto croccante… questioni oggettivamente soggette al soggettivo. Lascerei il mondo in pace per un po’. Promuoverei la riscoperta di quel che il globo ci sta sussurrando, invece di ritenerlo malato e noi insieme a lui. Invece mi si palesa in modo esponenziale l’incoerenza degli investimenti economici, troppo spesso dettati da un presunto stare al passo, da una presunta – e spero che solo tale rimanga – fobia di una palese e visibile terza guerra mondiale, da un voler dimostrare, da parte di alcune nazioni, la potenza dell’artiglieria per eguagliarsi o primeggiare sugli altri. Bando da pacifismi utopici e cogliendo il senso e lo scopo degli eserciti, nel mondo attuale le urgenze sono ancora ambientali, a cascata sulle società. Più che mai alcuni Paesi, penso a uno dei più colossali come l’India, devono affrontare con priorità i monsoni che perdurano, le inondazioni che devastano, gli inquinamenti su ogni frangente senza più nascondersi dietro colpe, giudizi e vittimismi postcoloniali (con tutta la cautela e la sensibilità della tematica, a più ampio raggio penso anche ai velenosi strascichi antisemiti, ma penso anche alla bellezza della danza Butoh come catarsi postatomica), e magari convogliare davvero le forze dell’esercito, e a esso destinate, per far fronte alla necessità di una salubrità che perdura, elevando le performances tecnologiche a strategie pacifiche, neutrali e di cura. Per tutti, mentre strizziamo l’occhiolino agli esemplari copenaghensi. Il decorso dell’umano è soprattutto nelle nostre mani.

L’organizzazione e la direzione della vita pubblica dovrebbero esulare dalle etichette politiche soggette a rivalutazioni intrinseche agli obiettivi per il bene comune. Chiarisco: potrei considerare i copenaghensi alla stregua di una dittatura consenziente, ma non abbiamo potuto allinearci al comun-socialismo cinese. Bene, anzi ottimo, visti i risultati, e non da meno riconoscendo pregi e difficoltà di ogni parte. Utopicamente, fonderei le due attitudini e renderei le ambiziose e raggiunte mete copenaghensi dilaganti e diffuse, con rapidità cinese. Realizzo come sia applicabile rinunciare ad alcuni aspetti culturali che nuocciono all’altro. Riconosco come la cultura altra possa far progredire la propria. Promuoverei ibridi culturali senza appiattimenti – che è rischio intrinseco al solo approccio economico – e senza autoritarismi. Bandirei anche la maggior parte degli embarghi e delle sanzioni, per principio intrinseco, sapete… le marachelle e i castigatori. Bravi, intanto e comunque, a chi al gioco attuale riesce a starci e pure ad agire (nel e per il) bene.

In barba a economie e a capitalismi spietati, promuoverei e vincolerei le varie nazioni, questo unico tessuto globale, a realizzare la necessità di esulare dai propri ipotizzati confini per convogliare soluzioni e pragmatismo al bene comune, per la salubrità ambientale che riguarda tutti, per continuare a dare infrastrutture materiali e immateriali al fine di vivere bene (intendendo con valore aggiunto al dignitoso) per le generazioni attuali e future, nei vari contesti: tra le persone e negli ambienti in cui siamo e a cui accediamo. Per amore del pianeta abitato anche dall’umano.

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