La Casa Bianca respirava piano, come un animale ferito.
Ogni stanza sembrava custodire un’eco di gloria passata — discorsi, applausi, firme di trattati, telefonate a mezzanotte — ma ora tutto taceva. Era la notte del 7 agosto 1974, e il silenzio aveva un suono preciso: quello del potere che muore.
Nello Studio Ovale, la lampada sullo scrittoio gettava una luce fioca, tremolante. Le tende erano chiuse, eppure Nixon continuava a guardarle, come se da un momento all’altro potessero aprirsi e lasciar entrare la storia per chiedergli conto di tutto.
Camminava avanti e indietro, le mani giunte dietro la schiena.
Ogni tanto si fermava, si voltava verso Kissinger e poi riprendeva il passo, come se avesse paura che l’immobilità potesse trasformarlo in pietra.
«Sai, Henry,» disse infine, la voce rauca, «pensavo che la grandezza bastasse. Pensavo che se uno fa cose grandi, la gente gli perdona tutto.»
Sorrise, ma senza gioia. «Invece no. Ti contano anche i peccati minori. Ti giudicano da quelli, non dalle vittorie.»
Kissinger restò in piedi, a qualche passo di distanza. Non era mai stato bravo con le emozioni, lui. Era un uomo di mente, non di cuore. Ma quella notte sentiva qualcosa di pesante nella gola — un miscuglio di pietà e rispetto.
«La storia non è giusta, Mr. President,» rispose piano. «È solo implacabile.»
Nixon annuì. Si avvicinò alla finestra, scostò appena le tende. Davanti a lui, i giardini della Casa Bianca si stendevano immobili, come una fotografia.
«Vedi quei prati, Henry? Li ho visti da questa finestra mille volte. E ogni volta mi dicevo: tutto questo finirà con me. Non un giorno prima.»
Tacque, poi aggiunse: «E invece finisce stanotte.»
Sulla scrivania c’era il foglio con il testo delle dimissioni, battuto a macchina da un segretario. Il carattere Courier, regolare e impersonale, sembrava una beffa. Quelle poche righe, asciutte e fredde, avrebbero chiuso una presidenza e un’epoca.
Kissinger prese posto su una delle poltrone, le mani intrecciate. Avrebbe voluto dire qualcosa — qualcosa di giusto, di umano — ma non trovava le parole.
Nixon lo guardò a lungo. Poi si sedette accanto a lui, pesantemente, come se avesse il mondo sulle spalle.
«Tu hai fatto grandi cose per questo Paese,» disse Kissinger, quasi sussurrando.
Nixon rise, ma era un suono spezzato, fragile.
«Eppure resterò il presidente che ha mentito. Non quello che ha aperto la Cina, non quello che ha chiuso il Vietnam, non quello che ha parlato con Mosca. No, resterò il bugiardo del Watergate. È così che funziona, Henry. L’uomo cade, e il mondo finge di non aver mai creduto in lui.»
Il silenzio tornò a riempire la stanza.
Nixon si passò una mano sul viso, poi guardò verso il ritratto di Lincoln.
«Sai che cosa mi chiedo? Se lui avesse potuto scegliere, avrebbe voluto essere amato o capito?»
Kissinger si voltò lentamente. «Forse nessuno dei due. Forse voleva solo lasciare un segno che durasse.»
Nixon inspirò profondamente.
Poi, in un gesto che avrebbe fatto inarcare le sopracciglia a qualsiasi testimone, si inginocchiò sul tappeto. Le spalle curve, la testa bassa.
«Prega con me, Henry,» disse.
Per un attimo Kissinger rimase immobile. Non era un uomo religioso. Ma in quella notte, in quella stanza, tutto sembrava diverso: la fede, la politica, la dignità. Tutto si confondeva in un’unica, fragile umanità.
Così anche lui si inginocchiò accanto al presidente. Due uomini potenti, inginocchiati sotto il ritratto di Lincoln, pregando — o forse soltanto cercando di dare un senso all’impossibile.
Fu un momento breve, ma reale.
Quando si rialzarono, Nixon sembrava più vecchio di dieci anni.
«Domani sarà finita,» disse piano.
«Sì,» rispose Kissinger. «Ma la storia non finisce mai davvero.»
Nixon annuì, guardando il foglio delle dimissioni.
«No,» mormorò, «ma gli uomini sì.»
Fuori, l’alba cominciava a rischiarare il cielo di Washington.
La luce filtrò tra le tende e toccò per un istante la scrivania, la bandiera, il sigillo presidenziale sul tappeto.
In quella luce pallida, due figure restarono immobili — Nixon e Kissinger, soli, amaramente, testimoni di una fine che sapeva di storia e di silenzio.
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