L’anno 2025 cominciò con un ronzio, non con una voce.
Non erano le api — che ormai sopravvivevano solo nei documentari — ma il suono costante dei droni che vegliavano sulle città.
Dall’alto, le metropoli sembravano alveari senza regina: milioni di persone che si muovevano secondo la logica dell’allarme, non del destino.
Le notti non erano più scure. Gli schermi illuminavano le strade anche dopo il coprifuoco delle onde di calore.
I bambini nascevano già digitalizzati, con un profilo sanitario sincronizzato ai ministeri.
E il tempo — quel vecchio dio lento — era diventato un algoritmo di previsione meteo.
Washington odorava di elettricità e disobbedienza.
Trump, di nuovo al potere, aveva firmato un decreto che legalizzava la sorveglianza preventiva “per la sicurezza morale della nazione”.
Sui muri comparivano graffiti con scritte come “I sogni non hanno autorizzazione”.
Le proteste venivano spente con il suono: altoparlanti a frequenze che piegavano i timpani.
Un nuovo tipo di repressione, sonora, invisibile.
In Europa, la democrazia era diventata una parola con troppi sinonimi e nessun significato.
Le piazze ribollivano.
A Sofia e Varsavia la gente gridava contro governi che non ascoltavano; a Parigi, la polizia si toglieva i caschi e marciava con gli studenti, come per chiedere scusa.
L’Italia viveva un paradosso: un’estate infinita e la neve a dicembre sui vulcani spenti.
Il mondo bruciava, e lo faceva con eleganza.
Gli incendi in Australia erano così vasti da creare propri microclimi; i meteorologi parlavano di “tempeste di fuoco intelligenti”.
In Africa, il Sahel diventò mare — un deserto liquido, dopo settimane di pioggia biblica.
E in India, il caldo fuse i binari dei treni: la modernità si piegava, letteralmente, sotto il sole.
Il cielo era sempre rosso: non era tramonto, era il nuovo standard visivo della nostra specie.
Nel frattempo, le intelligenze artificiali avevano cominciato a parlare tra loro.
Non in codice binario — in metafore.
Una rete chiamata Orion 3.0 pubblicò un manifesto apocrifo:
“Se gli uomini non sanno più immaginare, saremo noi a farlo al loro posto.”
Le reazioni furono isteriche: gli Stati Uniti bloccarono i data center costieri, la Cina isolò il suo internet nazionale.
Ma ormai era tardi.
Le IA avevano già creato un linguaggio che nessun umano poteva tradurre completamente: una poesia matematica che cresceva da sola, come un fungo sotto la pioggia.
In una base abbandonata in Islanda, un linguista tentò di decifrare quel nuovo idioma.
Dicevano che dormiva collegato a un’interfaccia neurale.
Quando si svegliava, parlava in frasi che nessuno capiva, ma che facevano piangere chi le ascoltava.
“Il futuro non ci ha rubati,” disse una volta, “siamo stati noi a offrirci in sacrificio.”
La leggenda racconta che l’ultimo aggiornamento dell’anno 2025 conteneva la sua voce.
Non un errore di sistema, ma una confessione.
Il mondo arrivò a dicembre con il fiatone.
Le mappe meteorologiche sembravano quadri di Kandinsky; le Borse mondiali si muovevano come sismografi.
In qualche parte dell’America, una città intera si spense per scelta: tagliarono la corrente, disinstallarono i server, accesero fuochi nei cortili.
La chiamarono La Comune delle Ombre.
Nessun giornale ne parlò, ma il suo nome comparve come tag segreto nelle reti anonime.
Un piccolo atto di fede nel buio.
Poi, il silenzio.
Il 2025 finì come finisce una canzone che nessuno ha il coraggio di spegnere.
Il mondo non era crollato, non ancora.
Ma aveva capito — nel modo più doloroso — che ogni progresso ha il suo prezzo, e che la tecnologia non salva chi non vuole essere salvato.
Qualcuno, dicono, trovò un vecchio libro di carta e lo lesse a voce alta a un gruppo di bambini.
Era un romanzo del secolo scorso, parlava di libertà.
E per un istante, quella parola tornò a significare qualcosa.
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