La Siria torna a sanguinare lungo le sue fratture più profonde. Nelle città costiere di Latakia e Tartous, almeno quattro persone sono state uccise e oltre cento ferite durante manifestazioni della comunità alawita che chiedevano federalismo politico e diritto all’autodeterminazione. Le proteste, composte in larga parte da civili, si sono svolte in un clima di forte tensione e arrivano come risposta diretta all’attentato del 26 dicembre contro una moschea in un quartiere alawita di Homs, dove otto fedeli hanno perso la vita.
A innescare la mobilitazione è stato l’appello del religioso alawita Ghazal Ghazal, presidente del Consiglio islamico alawita superiore, che ha invitato la comunità a scendere in piazza per denunciare quella che viene percepita come una marginalizzazione sistemica dopo l’attacco alla moschea. “Non vogliamo una guerra civile, vogliamo il federalismo politico. Non vogliamo il vostro terrorismo. Vogliamo determinare il nostro destino”, ha dichiarato in un videomessaggio diffuso sui social, diventato rapidamente virale.
Domenica 28 dicembre, migliaia di persone si sono radunate in piazza Azhari a Latakia chiedendo un sistema politico decentralizzato, la fine delle violenze contro la minoranza alawita e il rilascio di migliaia di prigionieri. Le immagini delle manifestazioni mostrano una protesta popolare che si richiama al linguaggio dei diritti e dell’autogoverno, ma che si è scontrata con una repressione violenta. Sulle responsabilità, le versioni divergono: l’agenzia statale SANA ha attribuito gli attacchi ai “resti del defunto regime” di Bashar al-Assad; al contrario, l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani sostiene che la repressione sia stata condotta da membri della Sicurezza Generale affiliati al governo provvisorio.
Il quadro si inserisce in un contesto già segnato da un anno di instabilità. A dodici mesi dalla caduta del regime di Assad e dall’ascesa al potere dell’ex jihadista Abu Mohammad al-Jolani, la promessa di una Siria pacificata non si è materializzata. Le violenze settarie non solo non sono cessate, ma hanno assunto nuove forme. Tra il 7 e il 9 marzo 2025, secondo fonti indipendenti, 1.479 civili alawiti sarebbero stati uccisi in almeno 40 località da insorti legati al nuovo governo, un dato che pesa come un macigno su qualsiasi narrazione di riconciliazione nazionale.
L’attualità regionale rende la crisi ancora più esplosiva. Mentre il Medio Oriente è attraversato da conflitti aperti e latenti — da Gaza al Libano, dal Mar Rosso all’Iraq — la Siria resta un epicentro irrisolto, dove le minoranze temono di pagare il prezzo delle transizioni di potere. Le richieste di federalismo avanzate dagli alawiti non sono soltanto una rivendicazione identitaria: sono il segnale di una sfiducia profonda verso un centro che, cambiato di mano, continua a essere percepito come minaccioso.
In questo scenario, la Siria appare lontana dalla stabilità. Le proteste di Latakia e Tartous mostrano che la fine di un regime non coincide automaticamente con la fine della violenza, e che senza garanzie reali per le minoranze il rischio di una nuova spirale settaria resta alto. La domanda che emerge, oggi più che mai, è se la comunità internazionale intenda limitarsi a osservare o se sia pronta a sostenere un processo politico inclusivo capace di evitare che il Paese ricada, ancora una volta, nell’abisso della guerra civile
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