Leggo (su Il Foglio) un giudizio del 1997, firmato da un importante giornalista del Times, Simon Jenkins: “Internet non è altro che una nuova follia elettronica e le dinamiche di mercato sapranno ridimensionare il fenomeno. Frattanto i suoi fanatici sostenitori esigono la comprensione e la tolleranza un tempo riservate agli esperantisti e ai radioamatori. Internet si pavoneggerà sulla scena per un’ora per poi trovare il suo posto tra le file dei media minori…”
Bel profeta, quello: Internet ridotto a una specie di hobby. Invece oggi Internet regna onnipotente su tutto lo scibile e il vivibile umani e senza di esso ci sentiamo orfani e impotenti.
Alzi la mano, per esempio, quel giornalista che non accede almeno dieci (o cento) volte al giorno alle scorciatoie di Google e Wikipedia.
Certo, ci sono anche gli intellettuali puri e duri che diffidano delle frattaglie culturali del Web. E hanno ragione se intendono che una tesi di laurea o uno studio approfondito non possono dipendere (soltanto) da Internet. Però la lamentazione contro l’informazione-formazione di Internet ha l’anacronismo di uno che diffidasse della luce elettrica evocando il caldo fascino del lume di candela (che va bene per una cena romantica ma non toccateci le mille lampadine della nostra vita).
Certe invenzioni invece durano poco davvero e sono dei passaggi brevi verso strumenti nuovi che le fanno morire: è successo per la radio a transistor, i dischi di vinile, il mangianastri, le diapositive, tutti defunti.
Forse anche Internet conoscerà sviluppi impensabili. Ma appare ormai certo che la presenza enciclopedica e totalizzante di informazioni, saperi e conoscenze sul buffet elettronico mondiale è un dato di fatto senza ritorno. Che poi ogni invenzione tecnologica possa essere usata bene o male, utilmente sfruttata oppure abusata come una droga, appartiene alla responsabilità delle persone e non al mezzo, che è neutrale e non morale.
È perdonabile anche un po’ di nostalgia. A me per esempio pare una specie di età dell’oro quella in cui, quando ero bambino, tre volte la settimana si attraversava a piedi la città con la mamma (e la domenica anche il papà) per andare a trovare i nonni nella loro vecchia casa con il giardino: né loro né noi avevamo il telefono (ebbene sì, io fui un bambino pretelevisivo e pretelefonico e oggi mi ritrovo ad aver lavorato una vita in Tv e a passare ore al telefono, ma tu guarda).
E dunque bisognava andare di persona ed era bello e si giocava tra gli alberi con i cugini, i nonni raccontavano le loro antiche storie e c’era il profumo di caffè e d’inverno di caldarroste e tutte quelle cose lì. Ma forse semplicemente ogni infanzia, rammemorata da adulti, luccica.
Mi ricordo le vecchie redazioni alla radio e alla televisione, con i giornalisti che battevano sui tasti delle macchine per scrivere e mettevano la carta carbone per avere una copia, strappavano chilometri di carta dalle telescriventi con le notizie d’agenzia e fumavano in continuazione (un ricordo per tutti: Tiziano Colotti con il bordo della bocca fumante e le due dita velocissime a mitragliare sulla tastiera e molte pause per le sue omelie caustiche ai colleghi).
Oggi nelle newsrooms scintillano centinaia di schermi, non si odono più i rulli delle macchine e soprattutto è rigorosamente proibito fumare. Ma la nostalgia è per il tempo della giovinezza, non per le Hermes e le Olivetti e le montagne di fogli. Avessi la tecnologia di oggi e l’età di ieri, sarei anche contento.
Michele Fazioli
– pubblicato il 16.4.2012 sul Corriere del Ticino – per gentile concessione
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