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Il declino dell’Europa post-comunista – di Carlo Vivaldi-Forti

Tratto dal libro “Il crollo del modello consumistico assistenziale” (Cap. II)

Una serie di occasioni perdute

Nei remoti anni Settanta, mentre l’Italia tremava sotto il piombo delle sedicenti Brigate Rosse, a Roma governava la sinistra democristiana, Paolo VI in Vaticano, Breznev al Cremlino, Ford e Carter alla Casa Bianca, scrissi un romanzo, La Corona di San Venceslao, che all’epoca si sarebbe potuto definire fantapolitico, mentre rileggendolo oggi appare quasi un saggio di storia, tanto le mie previsioni si sono rivelate esatte. Purtroppo, non ebbe la notorietà che avevo sperato. La Casa editrice che lo pubblicò, La Città Armoniosa, fu messa fuori combattimento da sleali avversari per punirla delle sue posizioni anticonformiste, e per questo non poté curarne la diffusione. In esso avevo previsto tra l’altro l’avvento del Papa polacco, di un presidente iperconservatore negli Stati Uniti, di un leader progressista in Unione Sovietica. La vicenda terminava col tracollo del comunismo e l’abbattimento del muro di Berlino.

Si trattava dunque di una profezia degna di un moderno Nostradamus, oppure c’era in essa qualcosa di errato? Devo riconoscere che lo svolgimento degli eventi dal 1973 al 1989 appariva descritto con precisione quasi assoluta. Dove mi sono sbagliato, invece, è sulle conseguenze.

Cosa sarebbe accaduto, in Europa e ne] mondo, dopo la fine del comunismo? In questi termini si esprime, all’ammainabandiera sulla Piazza Rossa, Leonid Vassilievic, che nel romanzo gioca il ruolo di Mikhail Gorbaciov’: «Non ci venite a ripetere la favola che laddove scompare la dittatura comunista riappare inevitabilmente il capitalismo. Che razza di marxisti siete voialtri, se credete che dopo tre quarti di secolo di esperienza e di educazione socialista, sia sufficiente liberalizzare le istituzioni perché volontariamente il popolo ritorni alle forme più arcaiche di produzione? Delle due ipotesi è valida l’una: o il capitalismo non torna, ciò che io credo fermamente, oppure ritorna, e allora questo significa che settant’anni di educazione socialista sono stati in realtà una diseducazione o maleducazione continua, e se così fosse mi parrebbe indispensabile trame tutte le conseguenze. Ma state tranquilli; oggi, in questa piazza, non finisce solo la vicenda storica del socialismo realizzato, bensì anche quella del capitalismo sfrùttatore e distruttore dei beni naturali. In un mondo diviso in due emisferi, il crollo di uno coincide col crollo dell’ altro».

In tale brano raccoglievo gli auspici della maggioranza dei dissidenti, che lo stesso Papa Wojtyla avrebbe in seguito fatto proprie: la nascita di quella luce dall’oriente, di sapore biblico, che avrebbe illuminato il mondo dopo il crollo della tirannide e della barbarie. All’epoca della guerra fredda, quando la politica estera somigliava una partita di ping-pong, ad ogni lancio nel campo avversario corrispondeva un rilancio nel proprio. Era quindi perfettamente ragionevole attendersi che l’onda d’urto che aveva travolto l’impero dell’Est sarebbe rifluita in Occidente, provocando modifiche sostanziali nello stesso capitalismo, che non aveva più alcun motivo per restare prigioniero di un’economia di guerra. Tali cambiamenti, invece, non si sono mai verificati, tanto che oggi, a quasi vent’anni di distanza da quegli eventi, il nostro sistema sociale appare imbalsamato, rigido nelle sue strutture, incapace di sviluppare le energie creative indispensabili al progresso. Tanto rigido che una imprevista scossa tellurica potrebbe far collassare l’intero edificio, proprio come accadde nel 1989 al suo diretto avversario. Forse per questa paura, più o meno inconfessata, prevale ovunque un immobilismo ossessivo che blocca qualsiasi vero rinnovamento, uccidendo quella creatività che da sempre è considerata il principale presupposto di un’economia di mercato.

Appare quindi necessario chiedersi quali errori l’Occidente abbia commesso nell’ultimo ventenaio, cosa si sarebbe potuto fare in alternativa, cosa si dovrebbe fare oggi per rimediare, nei limiti del possibile, a queste scelte sbagliate. I più anziani ricordano bene quante aspettative e speranze fossero collegate, nel periodo 1950-1990, all’invocato crollo del comunismo, ritenuto da molti una chimera. I più ottimisti immaginavano l’avvento di un mondo finalmente riconciliato, libero dalla paura della guerra e dell’annientamento, incamminato verso un progresso inarrestabile, non solo sul piano materiale ma anche spirituale. Questo stato d’animo venne diffuso, dall’intelligence occidentale, negli stessi paesi dell’est, mediante il samizdat e le mitiche emissioni di Radio Free Europe.

Quando Karol Wojtyla divenne papa sembrò a molti che queste previsioni fossero sul punto d’avverarsi. Si credeva che una decisa spallata al bolscevismo sarebbe stata sufficiente per inaugurare una nuova età dell’oro, centrata sulla dignità della persona umana. Non solo l’uomo della strada, ma pure le autorità del Cremlino attendevano. da parte degli occidentali, il lancio di un nuovo Piano Marshall, come ricompensa per la loro conversione alla democrazia. Nessuno, ovviamente, credeva alla favola buonista della filantropia pura, del resto estranea allo stesso programma di aiuti del secondo dopoguerra. In quel caso, però, gli americani avevano deciso di trasformare l’Europa da ricostruire in un gigantesco mercato d’esportazione, il più grande affare del secolo. Nel caso degli stati ex-comunisti, invece, le scelte di Washington e diBruxelles si rivelarono del tutto diverse. Le lobby e i potentati economico-finanziari, al contrario degli anni Quaranta, tentarono di trasformare il defunto impero sovietico in colonia, fomitore di materie prime e mano d’opera a basso costo, malgrado l’elevata qualità di entrambe. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale pilotarono il post-comunismo in modo da ridurre le popolazioni appena uscite da quella tragica esperienza nella più squallida miseria, eccezion fatta per una ristretta élite di neocapitalisti, arricchitisi scandalosamente con mezzi spesso illeciti.

Gli effetti di tale politica non tardarono a farsi sentire. Il tentativo di colpo di Stato di Mosca del 1991 e la caduta dì Gorbaciov furono le conseguenze più immediate. L’avvento di Boris Eltsin, il politico russo più vicino all’Occidente, apri un periodo di totale anarchia che vide il trionfo della violenza e della corruzione mafiosa. La disperazione in cui precipitò la stragrande maggioranza del vecchio ceto medio, retrocesso alla condizione di sottoproletariato, è stata la principale causa dell’avvento di Putin e della svolta autoritaria degli anni Duemila. L’ottusità di questi atteggiamenti, che dietro un liberismo di facciata intendevano trasformare quella già potentissima federazione in un nuovo Far West, hanno prodotto l’effetto opposto a quello sperato. Il costo delle materie prime non è mai stato tanto alto come oggi, mentre l’influenza occidentale nel mondo si è drammaticamente ridotta. Gli Stati Uniti, presunti vincitori della guerra fredda, appaiono sulla difensiva su tutti gli scacchieri; nuove superpotenze sì affermano ovunque, disordine planetario e pericolo di guerra sono oggi molto più elevati che in passato. A cosa si deve tanto sconquasso?

La prima causa è di sicuro la spaventosa ignoranza delle classi dirigenti contemporanee, politiche o economiche che siano. Se oggi la Russia, anziché rappresentare un potente antemurale della civiltà europea verso est e sud-est, come avrebbe potuto e dovuto essere grazie alla sua tradizione cristiana, è giunta a denunciare i trattati sul disarmo, faticosamente e quasi miracolosamente sottoscritti da Gorbaciov e Reagan, annoverandosi inoltre fra i principali fomitori di tecnologia nucleare all’Iran, si deve alla non conoscenza della sua particolarissima e affascinante cultura. Qui si verifica sul campo la verità del principio, sostenuto nelle pagine precedenti, della maggiore importanza, per il potere politico, di una corretta visione generale dei problemi, piuttosto che tecnica. Quanti, fra i dirigenti occidentali, hanno ispirato le proprie azioni alla lettura di grandi classici come Tolstoi, Dostoievskii, Gorki, Cechov, eccetera, o allo studio della storia, invece che alle crude statistiche? Crediamo pochi. Ciò è davvero un peccato, perché se lo avessero fatto avrebbero compreso in tempo cosa rappresenta, per i russi, la sindrome da accerchiamento, oppure quell’orgoglio patriottico che li spinge a identificarsi in un noi collettivo, anche a detrimento dell’interesse personale, ossia l’opposto di quanto accadde in Occidente.

Se ci ritroviamo ancora una volta una Russia antagonista, sbilanciata verso il terzo mondo e in preda a rinnovate tentazioni egemoniche, lo dobbiamo in primo luogo alla cecità e all’ottusa ingordigia di tutti coloro che, con arroganza, hanno preteso di umiliare e sottomettere l’ex-superpotenza al fine di sfruttame le risorse. Col rischio concreto, invece, che sia proprio lei a stringerci un cappio al collo mediante il ricatto delle forniture energetiche. Ciò costituisce l’ennesima conferma che l’analfabetismo culturale imposto dall’ideologia pragmatista, non solo non paga, ma si ritorce contro l’interesse stesso di chi lo pratica.

Ma allora, cosa avrebbe dovuto fare l’Occidente, al posto di quello che ha fatto? Semplicemente quanto si aspettavano i dissidenti, il Papa, Gorbaciov e, modestamente, il sottoscritto. Appena crollato il regime si sarebbe dovuto avviare un programma di aiuti per la ricostruzione di quella parte d’Europa, non condizionandoli alla stipula di contratti specifici, ma solo come sostegno alla nuova democrazia. Contemporaneamente si sarebbe dovuto offrire alla Russia un pacchetto di proposte allettanti, decisive per il suo e per il nostro futuro: la clausola di nazione più favorita, l’adesione alla Ue e alla Nato con assoluta parità di diritti. Tutto questo ci sarebbe certo costato parecchio, ma avremmo concluso un ottimo investimento, quasi la sottoscrizione di una polizza assicurativa. Nel corso degli anni ne saremmo stati ripagati con gli interessi attraverso la diminuzione delle spese militari, l’apertura incondizionata di un vastissimo mercato in espansione, la disponibilità di materie prime che solo in quel caso avremmo potuto legittimamente considerare nostre, la comune lotta al degrado ambientale e al terrorismo, un pianeta stabile e ordinato nell’intero emisfero settentrionale.

Non giustifichiamoci con l’attribuire l’intera colpa di questi errori agli americani! Dove si trovava l’Europa in quel periodo? Non solo l’Europa dei padri fondatori, Schumann, De Gasperi, Adenauer, ma anche quella di de Gaulle, che sognava un continente unito dall’ Atlantico agli Urali? Non cerchiamo neppure la facile scusa secondo cui la Russia non avrebbe accolto tali proposte. Esse non sono mai giunte, ufficialmente e con serietà, sul tavolo di Gorbaciov o di Eltsin, e neppure gli europei hanno mai levato la loro voce nei confronti di Washington, a sostegno di questi tentativi.

La verità è che il nostro continente, soggetto ai veti incrociati di quelle lobby e di quei centri di potere che condizionano in larga misura gli organismi comunitari, non ha mai concepito una politica di respiro mondiale, limitandosi alla banale e oltretutto pessima gestione del quotidiano. Il suo declamato modello sociale è fallito in quanto emanazione dell’ideologia pragmatista, principale causa del nostro lamentato declino, pesantissima palla al piede sul cammino dello sviluppo. Dobbiamo prendere atto che noi stessi abbiamo bisogno di una radicale perestroika, che ci liberi dalla dittatura invisibile, ma proprio per questo più insidiosa, che domina e condiziona ormai l’Europa intera.

Carlo Vivaldi-Forti

Relatore

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  • …” Nei remoti anni Settanta, mentre l’Italia tremava sotto il piombo delle sedicenti Brigate Rosse, a Roma governava la sinistra democristiana”…

    Basterebbero queste poche righe per individuare nella… musica di Vivaldi-Forti una dominante… ideologica.

    In realtà nei remoti anni settanta nella vicina Penisola non imperversavano (solo) le Br. Si narra, (almeno ci raccontano i fatti) che la politica ufficiale era piuttosto succube -non tanto della seppur feroce rapsodia rivoluzionaria di rossa matrice- ma viceversa ostaggio di un’organizzatissima composizione sinfonica, poi definita “strategia della tensione”. Un’etichetta generica che fu “matrice” di reali e ancor più feroci stragi di Stato molto “oscure” perfino nere, anzi nerissime. Addirittura ammazzamenti con bombe sui treni, e in agosto, in stazioni affollate. Tanto da far pensare che, addirittura nascosto dietro il rosso delle brigate, stay-behind (stava dietro) un’intonazione di tutt’altro colore. Più che tremare si tramava. Impugnando il… gladio.

  • Caro amico, questa minestra, volevo dire "colla"... è molto vecchia, e non attacca più! Le brigate rosse erano ROSSE e le "carriere" degli esecutori in kalashnikov perfettamente individuabili (e individuate), dal '68 in poi. Pochi anni, tre, quattro, cinque anni. Oggi di queste cose si sa MOLTO. Non voglio dire tutto, perché non si sa mai "tutto".

    • Ho semplicemente scritto (autocitazione): “Tanto da far pensare che…”

      Ho trovato, tempo fa, un libretto della Baldini e Castoldi (non certo una casa editrice di parte) che ha pubblicato un saggio dal sottotitolo (ambizioso ma calzante) “La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi” di Giorgio Galli (politologo e Consulente commissioni stragi) molto ben documentato. Lo consiglio a quelli che (per età) conoscono i fatti solo per interposta persona. Quindi (per età) non credo sia il tuo caso. Ma mi posso anche sbagliare. Su tutto, intendevo dire.

  • Quando il grande Indro Montanelli osò, per primo, scrivere certe cose, gli ipocriti e i complici si misero a urlare come ossessi. Non si combatte SOLO con il piombo (ebbe anche quello).

  • ... l'ideologia pragmatista è indubbiamente, tra tutte le ideologie, quella peggiore. È praticata dai socialisti di tutti i partiti e ha i suoi sponsor, in Ticino, in tutti mass media che contano. E questo spiega perché il socialismo non è mai, di fatto, caduto. Ha solo imparato a tosare la pecora (che il vetero-socialismo tosava tutta e subito, e poi se la mangiava) a tappe, aspettando che la lana ricrescesse. Ma, "pragmaticamente" impazienti, si è finito per impegnare in debiti e in standard di vita, insostenibili nel lungo periodo, più lana di quanta le pecore riuscissero a produrre (pare circa 60 volte tanto; questo sembra essere infatti il rapporto tra indebitamento e PIL mondiale). Adesso non resta che prendere "pragmaticamente" atto che siamo nella m....

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