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Carmelo Rifici, direttore di Lugano in Scena al LAC: «Il Teatro? è inconsistenza misteriosa»

Carmelo Rifici, direttore di Lugano In Scena al LAC – Lugano Arte e Cultura ed  direttore della Scuola Teatro 2018

Luca Ronconi fondata da Giorgio Strehler, intervistato da Ticinolive, racconta la sua esperienza teatrale, in un’indagine che parte dalle forme di teatro del passato a quello contemporaneo – anche se, precisa, “il teatro è tutto contemporaneo, poiché parla al presente” – e giunge sino al contrasto, nella recitazione e nella scrittura, tra i grandi maestri del passato e gli emergenti; un lungo dialogo nella dicotomia tra tradizione e innovazione, prosa e poesia, cinema e teatro. Ma anche finzione, e rappresentazione di realtà.

Carmelo Rifici direttore di Lugano in Scena [Copyright LAC 2015]
Direttore Rifici, il teatro contemporaneo parrebbe aver perso, in virtù dell’essenzialità e del minimalismo, la peculiarità teatrale classica del rapportarsi al pubblico, dalla catarsi alla centralità dell’uomo. Cosa ne pensa?
Occorre fare delle differenze su quello che è il teatro contemporaneo: parlando al pubblico di oggi, il teatro è tutto contemporaneo. Bisogna poi scindere le esperienze del teatro contemporaneo: oggi è molto difficile capire quale forme siano di un teatro post narrativo, che cerca di staccarsi dalla tradizione, e un teatro contemporaneo che invece innova la tradizione, sono due forme differenti ma che si muovono assieme. L’una insita nella tradizione, l’altra mette in discussione la tradizione stessa. Quest’ultima è più legata a un teatro performativo, anti narrativo. Non credo ci sia una perdita del rapporto col pubblico, ma semplicemente che il teatro abbia sempre rivoluzionato il modo di comunicare: fondamentalmente è il banco di prova della nuova comunicazione. Credo pertanto che servano anche per un direttore e una buona stagione un equilibrio fra le varie esperienze che il pubblico possa fare, da quelle più tradizionale accessibili, a quelle più sperimentali, nuove. Il nuovo viene sempre inglobato dalla tradizione, perciò non va temuto. Il teatro di regia italiano, come quello di Luca Ronconi, oggi è assoldato come tradizione, in realtà nacque come assolutamente sperimentale, quindi io credo che il nuovo serva per rinnovare la tradizione.

Rinnovare la tradizione. Si può, a Suo parere, farlo anche nel nome dell’Alfieri, della Tragedia in versi? Si potrebbe infatti obiettare che abbiamo dimenticato un teatro talvolta pesante, ma indubbiamente omocentrico…
Il teatro contemporaneo performativo è ancora più omocentrico, il che è la sua trappola, poiché in realtà è addirittura entrato nel privato dell’uomo, divenendone la narrazione scenica, la trama da raccontare. la vocazione della narrazione umana non si è mai persa, né si perderà. Per quanto riguarda le Tragedie dell’Alfieri e del Manzoni ritengo che non siano mai entrate nella tradizione italiana.

Come mai?
Perché sono lingue inventate, troppo estranee al parlato. Ciò non toglie che alcune dell’Alfieri vengano tuttora rappresentate, come Il Filippo, portato in scena dal Ronconi, però la lingua dev’essere creata non a tavolino, ma direttamente sul palcoscenico: è questo, per esempio, che fa sì che si portino tuttora in scena le commedie del Goldoni. Le lingue dell’Alfieri e del Manzoni sono certamente grandi lingue, ma restano letterarie, ed è molto difficili renderle parole carnali.

Quindi ritiene che sia ormai difficile recitare la poesia?
È difficile recitare quel tipo di poesia, poiché Dante per esempio viene ancora eseguito, poiché Dante è parola che diventa carne, e quindi è più facile per gli attori assumersi la responsabilità di quella parola. È evidente che la Mirra dell’Alfieri abbia più umanità e la lingua sia più umana da recitare, ma è indubbio che altri testi del poeta astigiano siano ineludibilmente difficili, ma non tanto per gli attori, quanto piuttosto per il pubblico. Lo stesso è per D’Annunzio, che non è frequentatissimo, certo, la Figlia di Iorio è più facile da recitare piuttosto che la Francesca da Rimini, però è evidente che ci siano autori che abbiano calcato la loro vocazione letteraria piuttosto che la loro funzione teatrale.

Sono quindi “Tragedie da leggere” come quelle di Seneca?
Si, sono più da declamare che da recitare.

Recitazione e declamazione. La prima allestita a tutti gli effetti, la seconda trasmessa da un solo attore, magari l’Autore. anche la declamazione può esser considerata recitazione?
Anche di più: la declamazione comporta il portarsi dietro un ingente passato culturale, quello che fanno gli attori, invece, è in realtà è un’antitesi della recitazione. Recitare significa infatti citare nuovamente, e quindi è una rappresentazione ogni volta ex novo, come se la pagina non fosse mai stata detta, raccontata, recitata. Sono due forme completamente differenti: la recitazione declamatoria non corrisponde a quello che tout court è il to play, il jouer, cioè il giocare con il testo, che è invece quel che fanno gli attori su un palco scenico, poiché alla fine converrebbe dire che i testi goldoniani si giochino, più che si recitino.

Prosa e poesia. Le tragedie di Shakespeare sono originariamente scritta in poesia, ma vengono generalmente tradotte in prosa. Pensa che, così facendo, si perda la poeticità, oppure ritiene che conti il contenuto, piuttosto che la forma?
No, il linguaggio è importante quanto il contenuto, tanto più per i testi shakespeariani, in cui se sbagli le parole, la forma, sbagli anche il contenuto. La parola scelta è essenziale. Dipende dalla capacità di entrare nel tessuto shakespeariano del traduttore: i versi shakespeariani non si possono tradurre in endecasillabi, piuttosto che in versi sciolti, ma un bravo traduttore riesce comunque a trasmettere un linguaggio che comporti tutta la complessità del linguaggio shakespeariano. La traduzione è sempre un tradimento.

Anche nel senso letterario del latino traho, letteralmente “consegnare” ovvero: “ti consegno qualcosa, a pegno di perderci qualcos’altro…”
Assolutamente. Qualcosa si perderà sempre, d’altra parte lo si può riconquistare attraverso la regia e la recitazione.

Teatro e cinema. Dal Romeo e Giulietta di Zeffirelli, a molti altri. Ritiene che si perda l’immediatezza del rapporto autore – pubblico, oppure che si guadagni in consequenzialità di riflessione, dello spettatore, che guardando un testo teatrale suggellato dalla macchina da presa, potrà rivederlo ogni volta eguale, mentre a teatro ogni recitazione non sarà mai uguale alla precedente…
Sono due forme completamente differenti. Il teatro proiettato al cinema ha altre prerogative, il cinema è un mezzo caldo: il veicolo dell’emozione, dell’immagine è molto più forte che a teatro, dove invece il veicolo del concetto è più importante. Il cinema perde la filosofia e la concettualità, peculiari invece del teatro, ma sopperisce a questa perdita guadagnando in emotività. Sono due funzioni completamente diverse, certamente il teatro d’oggi ha rubato al cinema.

Il teatro ha rubato al cinema?
Come no! Tutte le forme di teatro contemporaneo sono rubate al cinema, ma così facendo il teatro ha avuto modo di emanciparsi. Quindi in realtà è uno scambio reciproco: tutto quel che succede a teatro, a livello di costruzione, non riguarda più il modo all’antica di recitare, ma riguarda un montaggio cinematografico. La libertà acquisita dagli attori nel muoversi è tutta stata conquistata dal cinema, non dal teatro.

Se fosse nei panni di uno spettatore preferirebbe cinema o teatro?
Amo il teatro, ma vado anche al cinema, da spettatore molto felice, poiché è una grandissima forma d’arte popolare. Ritengo tuttavia l’esperienza teatrale come una delle poche forme di conoscenza diretta: la conoscenza, a teatro, è infatti immediata e consegnata dagli attori, accade pertanto una specie di ricreazione di comunità che immediatamente si mette in rapporto diretto e vivo col pubblico. Il teatro è vivo, e la possibilità di uno spettacolo di ottenere successo o fallimento conferisce una grande umanità al palcoscenico. È penalizzante, certo, ma è una grande forma di umanità.

Come la Giovanna d’Arco che fece dire a Giuseppe Verdi “O Scala, addio!” e poi invece, riproposta da Chailly nel 2015 ottenne un notevole successo… ritiene che un’Opera lirica o teatrale che possa avere la suddetta esperienza col pubblico, possa viaggiare attraverso il tempo e quindi vincere, attraverso il tempo?
No. Il teatro si fa sul presente. Uno spettacolo vive nel momento in cui l’hai consegnato.

È per questo che i suoi attori per esempio del Giulius Cesar si vestirono da militari della Seconda Guerra Mondiale, Giulio Cesare venne ucciso a colpi di pistola, la statua di Pompeo era di plastica arancione e non marmorea, tutto ciò poiché “il teatro si fa sul presente?”
No, è anche per smentire che noi possiamo ricalcare il passato. Il teatro fondamentalmente è sempre una finzione. Quando ci si costruisce uno spettacolo di stampo tradizionale bisognerebbe chiedersi se quella tradizione sia autentica o sia un’invenzione, poiché noi non sappiamo niente di quel che accadde alla prima recitazione, ai tempi di Shakespeare. Fondamentalmente ci aiutiamo a dare veritiero per convenzione tutto quel che arrivi dal passato, la realtà non è così: è sempre tutto frutto della nostra immaginazione.
Con quel Giulio Cesare ho voluto dimostrare come il teatro sia sempre un’invenzione narrativa, come non ci sia possibilità di ripresentare sul palcoscenico qualche cosa del passato, poiché non ne abbiamo testimonianza diretta e quindi sarebbe fasullo dire al pubblico di credere a qualcosa che in realtà non sia vera.
Con una finzione sin da subito, ritengo che il pubblico si lasci più andare alla verità dei rapporti. Questo è quel che ho tentato di fare.

Cos’è la finzione?
Un elemento importante: essere sinceri col pubblico significa ammetterla. Io non amo il teatro che ha “la presunzione della verità”, è come se dovessimo ammettere di essere sinceri, nella vita di tutti i giorni, minuto per minuto. Non è vero: siamo sempre frutto di una casualità di comunicazione, e sempre alla ricerca di un disperato bisogno di relazione. Dire che questo disperato bisogno di relazione abbia a che fare con l’artificiosità, occorre ammetterne la non autenticità, piuttosto che spacciare per vera una specie di mimetica che tale non sia.

Un discorso che va oltre i costumi degli attori…
In realtà già nel momento in cui si parla per versi è una finzione: noi nella vita di tutti i giorni non parliamo per versi. Quindi si sta cercando di portare un altro tipo di autenticità, che non ha a che fare con quella specie di finto realismo che si tende a rappresentare.

Se ci fosse un autore che avesse un “disperato bisogno” di rievocare la poesia dei secoli passati, commetterebbe un peccato scrivendo ad oggi Tragedie in V atti, in versi, con tanto di coro?
Ma no, conosco autori italiani bravissimi che lavorano solo sui versi. La fantasia è un fatto privato, la necessità di racconto è personale dell’autore. Ma il regista ha necessità di far sì che quel testo possa arrivare al pubblico in maniera che il pubblico ne possa cogliere tutta la complessità. È evidente che regia e autore si aiutino a vicenda in questo desiderio di comunicazione, però l’autore ha tutti i suoi diritti nell’indagare qualunque forma di contemporaneità e il teatro contemporaneo, grazie a Dio, non avendo etichette, lo permette.

In virtù di questa libertà conquistata dalla contemporaneità, si può essere al contempo figli del Novecento in virtù del verso libero, sia figli del Settecento, in virtù del genere scelto, il tragico? Può esserci un pastiche che coniughi libertà di verso e rigidità di struttura?
Dipende dalla coerenza e dalla sapienza dello scrittore. Il teatro è estremamente libero, anche se non del tutto: questa libertà non significa l’anarchia. Anche un linguaggio anarchico che mescoli endecasillabo e settenari non può essere, a meno che non abbia una coerenza estrema col contenuto che vuole raccontare.
E la coerenza come si ottiene?
Leggendo il testo, e indagando se esso abbia o meno un senso. Pasticcio e sperimentazione sono due cose diverse, dipende dalla grande consapevolezza del drammaturgo. Ma è sempre così, Picasso per distruggere Velasquez e trasformarlo in cubismo aveva una pre-acquista capacità tecnico-artistica.

Recitazione. Cosa pensa dei nuovi attori di teatro, rispetto ai più noti?
È cambiato tutto, è evidente che non siamo più nell’epoca analitica, ma siamo all’inizio di una nuova epoca, siamo ancora agli albori, quindi i giovani attori sono dei pionieri. Hanno un altro bagaglio emotivo e simbolico, a loro gli si richiede di essere interpreti di una società che non è più quella di 30 anni fa, ma, al contrario, essendo altamente tecnologica, necessita di altri strumenti d’indagine. Io credo che mai come in questo periodo si riesca a valutare le grandi differenze tra attori quali Massimo Popolizio, Elisabetta Pozzi e Franco Branciaroli, portatori di una grande sapienza scenica, di una grande conoscenza e capacità mimetica, rispetto ai giovani attori ai quali è richiesto di rappresentare la grande fragilità e la grande inquietudine dei tempi attuali. È molto commovente vederli recitare assieme, nella grande complessità dell’essere umano che si manifesta nella recitazione simultanea di un grande attore e un ottimo attore emergente.

È per questa “inquietudine” che ha scelto il tema di Ifigenia?
Ifigenia rappresenta un tema per me fondamentale, poiché è da quel Giulio Cesare che sto trattando il tema del capro espiatorio e di una società che stia diventando sempre più inquietantemente violenta, necessitando di una vittima pura, innocente, l’innocenza è un pericolo per la società, ancora oggi fondamentalmente siamo alla ricerca di una vittima sacrificale, le fazioni non si contraddistinguono più se non per la violenza che li accomuni, così per il Giulio Cesare, così per quanto riguarda oggi, in cui non si capisce più la differenza tra un Putin, un Trump, un Erdogan: l’indifferenziato è inquietante, poiché l’assomigliarsi non è bella cosa, soprattutto in un’epoca di crisi.

Una frase che suggelli l’esperienza teatrale: cos’è il Teatro, per Lei?
Shakespeare disse “noi siamo fatti della stessa sostanza di cui siamo fatti i sogni.” Siamo fatti di inconsistenza misteriosa, e il teatro va sempre alla ricerca di questa inconsistenza misteriosa.

Intervista di Chantal Fantuzzi

Relatore

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