Bibbia

la Via Pulchritudinis: l’arte sacra, Giovanni Damasceno e la difesa delle Icone

La fede cristiana non è un’idea astratta: ha un volto, una voce, un profumo. Per questo, quando entriamo in una chiesa antica o ci fermiamo davanti a un’icona, sentiamo che qualcosa ci accoglie prima ancora di capire. La bellezza fa da ponte: apre il cuore, rende abitabile il mistero. Questa è la Via Pulchritudnis, la via della bellezza che conduce a Dio.

qui potete leggere un bellissimo documento vaticano sul tema della bellezza Via Pulchritudinis

Dio non ha paura della bellezza

La Bibbia non è diffidente verso l’arte. Al contrario: Dio stesso chiede bellezza. Nel libro dell’Esodo affida a Mosè indicazioni minuziose per il Tabernacolo e per l’Arca dell’Alleanza: legno pregiato, rivestimenti d’oro, tessuti color porpora e scarlatto, pettorale del sommo sacerdote tempestato di pietre. Sull’Arca, due cherubini d’oro “che stendono le ali a proteggere il propiziatorio”. Lì abita la Shekhinà, la Presenza che si manifesta come nube e luce. Non è vanità: è pedagogia. Dio educa il suo popolo con segni sensibili – forme, colori, luce – perché la bellezza parla a tutti, anche a chi non sa leggere.

Se l’Antico Testamento prepara così il cuore, il Nuovo lo compie: in Gesù Dio diventa visibile. Da quel momento, raffigurare Cristo, la Madre, i santi non è un tradimento ma una confessione: “Il Verbo si è fatto carne”.

Giovanni Damasceno: il teologo che difese le immagini

Nel cuore delle lotte iconoclaste a Bisanzio (VIII secolo), Giovanni Damasceno, monaco del Mar Saba vicino a Gerusalemme, alza la voce. Non per gusto estetico, ma per fedeltà all’Incarnazione. Nei Discorsi contro coloro che distruggono le sacre immagini dice, in sostanza:

  • Dio si è reso raffigurabile: chi proibisce di dipingere Cristo, in pratica, nega che abbia assunto una vera umanità.
  • Venerare non è adorare: l’adorazione appartiene solo a Dio; alle icone si rende venerazione, un onore che “passa al prototipo”.
  • La materia è via di grazia: come l’acqua del Battesimo o il pane dell’Eucaristia, anche legno, gesso, pigmenti possono diventare veicoli della presenza.

Le sue parole illumineranno il Concilio di Nicea II (787), che riaffermerà la legittimità della venerazione delle immagini. Oggi, grazie anche a lui, sappiamo che la bellezza non è un optional: è un linguaggio teologico.

Dove la bellezza nasce: i monasteri delle icone

Molte icone vengono da laboratori monastici. Non sono atelier come gli altri. L’iconografo “scrive” l’icona più che dipingerla: segue un canone, prega, digiuna, lavora in silenzio. La tavola si prepara con pazienza (tela, gesso, levkas), i colori nascono da terre e uova, l’oro si stende come luce che non è del mondo. Ogni gesto è liturgia: non si inventa un’immagine, si riceve un volto.

Entrare in questi luoghi – pensiamo ai monasteri del Monte Athos o al deserto di Giuda, dove visse lo stesso Damasceno – è un’esperienza di sobria ricchezza: pareti ornate da disegni sottili e dalla bellezza che trascende i secoli. È la povertà che fa spazio alla luce. Per questo le comunità monastiche sono ancora oggi scuole di bellezza: insegnano a vedere, a distinguere il luccichio dall’oro vero, la moda dall’eterno.

Perché l’arte sacra ci riguarda

  • Educa il desiderio: ci ricorda che siamo fatti per il Volto, non per gli idoli.
  • Cura la memoria: ogni icona è un Vangelo a colori, una catechesi per chiunque.
  • Apre alla comunione: la bellezza non si possiede, si condivide; diventa casa, festa, liturgia.

In un tempo che consuma immagini a velocità folle, l’icona chiede lentezza: resta, guardami, lascia che io guardi te. Non vuole trattenere: rimanda. Come i cherubini dell’Arca, indica un Altro.

La Chiesa non custodisce l’arte sacra per nostalgia museale, ma perché sa che la bellezza evangelizza. Giovanni Damasceno lo capì con lucidità e coraggio: difendere le immagini era difendere l’Incarnazione. E i monasteri, con la loro pazienza operosa, continuano a consegnarci volti che parlano. Forse è tutto qui: imparare a riconoscere, nelle tracce d’oro e nelle pennellate d’azzurro, la Presenza che ci visita – discreta, luminosa, concreta – per rendere più umano il nostro sguardo.

Relatore

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