A view of the Red Brigades terrorists' ambush in central Rome, March 16, 1978, that ended in the kidnapping of then Italian Premier Aldo Moro and the slaying of five bodyguards (the Premier's car is center left). Monday, March 16, 1988, marks the 20th anniversary of Moro's kidnapping. His bullet-riddled body was found 55 days later near his Christian Democrat Party headquarters. (AP Photo)
16 marzo 1978.
È mattina. Roma si sveglia come ogni giorno, e io mi preparo a un giorno importante: il Parlamento voterà la fiducia al nuovo governo, quello che segna l’inizio di un cammino difficile ma necessario — l’incontro tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Ho creduto in questo progetto, ho lavorato per unire due Italie che per troppo tempo si sono guardate come nemiche.
Non immaginavo che quella strada, quel tratto di via Fani, sarebbe stato l’ultimo che avrei percorso da uomo libero.
Un rumore improvviso. Spari.
Un inferno di pochi secondi.
Vedo cadere gli uomini che mi hanno protetto con fedeltà e affetto: Leonardi, Ricci, Iozzino, Rivera, Zizzi. Non li dimenticherò mai. Poi il silenzio. Il buio.
Mi portano via.
Non so dove vado, ma sento che tutto è cambiato.
Sono diventato un prigioniero.
Mi tengono in una stanza piccola, senza finestre.
Una lampadina fioca, una coperta, una sedia, una penna.
Scrivo. È l’unico modo per restare vivo.
Scrivo ai miei cari, alla mia amata Noretta, ai miei figli, ai miei amici di partito, a Papa Paolo VI.
Scrivo per spiegare, per chiedere, per sperare.
Le Brigate Rosse mi dicono che sono “il prigioniero del popolo”.
Mi interrogano, parlano di rivoluzione, di giustizia, di un mondo nuovo. Ma non sanno cosa sia la pietà.
Mi guardano come un simbolo, non come un uomo. Io cerco di farli ragionare, di ricordare loro che la vita umana è sacra. Ma le mie parole si perdono nel nulla.
Ogni giorno aspetto notizie.
Sento che lo Stato non vuole trattare.
La “fermezza”, la chiamano.
Fermezza significa che la mia vita non vale quanto un principio.
Mi dicono che non si può cedere al ricatto, che non si deve legittimare la violenza. Ma io non chiedo una resa, chiedo solo di vivere.
Sono un uomo, non un simbolo.
Scrivo: “Il mio sangue ricadrà su di voi.” E temo che sarà così.
Passano i giorni, poi le settimane.
Mi fotografano, mi fanno leggere i giornali, mi dicono che fuori il Paese discute di me come di un problema politico.
Io non sono un problema. Sono una persona. Ho paura, ho freddo, ma non ho odio.
Continuo a credere che, fino all’ultimo istante, qualcuno troverà il coraggio di salvarmi.
Poi, un mattino di maggio, capisco che il tempo è finito.
C’è un silenzio diverso, più pesante.
Mi vestono con la giacca e la cravatta. Mi chiedono di scrivere l’ultima lettera.
Sento che la mia sorte è segnata.
Prego.
Prego per i miei figli, perché non conoscano l’odio. Prego per i miei carnefici, perché comprendano un giorno la follia di ciò che fanno.
Poi il viaggio.
Non so dove mi portano. Le strade di Roma scorrono come in un sogno.
Forse sperano che io non capisca. Ma io so.
So che la mia vita finirà in una piccola Renault 4 rossa.
Quando il buio arriva, penso a mia moglie, ai miei ragazzi, a quel Paese che ho tanto amato, e che ora sembra non saper più piangere.
9 maggio 1978.
Mi trovano lì, in via Caetani, tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista.
È come se il destino avesse voluto scrivere il suo ultimo, terribile simbolo: proprio lì, dove speravo nascesse un dialogo, giace il mio corpo.
Non so cosa resterà di me.
Forse le mie lettere, forse un ricordo, forse solo un dolore.
Ma se un giorno qualcuno vorrà capire, dovrà sapere che non ho mai cessato di credere nell’uomo, nel valore della vita, nella forza della parola.
Ho creduto nella pace.
E in quel sogno, che mi è costato la vita, io continuo a vivere.
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