L’aria di Monaco, l’8 novembre 1923, era densa di tensione. Il freddo autunnale tagliava le strade illuminate dai lampioni a gas, ma ciò che si respirava davvero era l’elettricità dell’attesa, del rischio, del destino che stava per compiersi. Nei birrifici, nei caffè, nelle piazze, si mormorava di un colpo di mano imminente. La Repubblica di Weimar vacillava, la Germania gemeva sotto il peso dell’inflazione e dell’umiliazione postbellica, e un ex caporale bavarese, con il passo deciso e gli occhi ardenti, si preparava a tentare la sorte.
Quella sera, nel Bürgerbräukeller, una delle grandi birrerie di Monaco, si teneva un’assemblea politica del commissario statale Gustav von Kahr. La sala era gremita di uomini in giacca e cravatta, ufficiali in congedo, curiosi e giornalisti. Le parole di Kahr, monotone ma ferme, risuonavano nel fumo denso delle sigarette, quando improvvisamente le porte si spalancarono con violenza.
Entrarono uomini armati. Davanti a tutti, con il volto contratto e una pistola in pugno, Adolf Hitler. Con voce tremante ma decisa, annunciò che la rivoluzione nazionale era cominciata, che il governo bavarese e quello di Berlino erano caduti. Intorno a lui, Ernst Röhm, Hermann Göring, Rudolf Hess, e gli altri membri del neonato partito nazionalsocialista si muovevano con concitazione. Hitler salì sul podio, sparò un colpo in aria e gridò: “La sala è circondata! Nessuno esca! La rivoluzione tedesca è iniziata!”
Per ore, i presenti furono tenuti sotto la minaccia delle armi. Von Kahr, von Lossow e von Seisser — i vertici del potere bavarese — furono costretti a dichiarare il loro sostegno. Ma quando, nella notte, Hitler e i suoi si allontanarono per organizzare la presa del potere, gli stessi uomini che aveva “reclutato” a forza si ribellarono. Le truppe governative si riorganizzarono, e l’alba del 9 novembre trovò Monaco divisa, tesa, pronta allo scontro.
Alle undici del mattino, circa duemila uomini — membri del NSDAP, veterani dei Freikorps, giovani idealisti — marciarono verso il centro della città. Hitler e il generale Ludendorff in testa. Le bandiere rosse con la svastica sventolavano, e i canti patriottici risuonavano tra le strade di pietra. Ma in Odeonsplatz, davanti alla Feldherrnhalle, li attendevano i poliziotti di Monaco, fermi, le armi puntate.
In pochi secondi, la piazza si trasformò in un inferno: colpi di fucile, grida, corpi che cadevano. Sedici nazisti e quattro agenti morirono. Hitler fu gettato a terra da un colpo che ferì a morte il suo compagno, Max Erwin von Scheubner-Richter. Il “Putsch di Monaco”, che doveva segnare l’inizio del nuovo Reich, finì in un bagno di sangue.
La sera del 9 novembre, Monaco tornò al silenzio. Le strade erano macchiate di sangue e di pioggia. Hitler, fuggito e poi arrestato due giorni dopo, avrebbe definito quel fallimento “il seme di un futuro successo”. Ma in quel momento, la Germania intera sembrava aver voltato le spalle a quell’uomo e alla sua folle ambizione.
Eppure, proprio da quella sconfitta — da quel 8-9 novembre 1923 — nacque il mito.
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