Non intendo commentare con puntigliosità ogni singolo provvedimento, preferendo un’analisi a tutto campo del problema, che nel nostro Paese è sempre stato motivo di discussioni e polemiche. Iniziamo quindi col ricordare che l’ultima, vera riforma organica del settore è stata quella di Giovanni Gentile. Si trattava, allora , di costruire una scuola all’altezza di una Nazione che stava faticosamente curando l’atavica piaga dell’analfabetismo di massa, e al contempo avvertiva il bisogno di creare una nuova classe dirigente, dotata di competenza e cultura. Il balzo in avanti che il filosofo di Castelvetrano fece fare all’istruzione umanistica, con particolare attenzione per la lingua italiana e per quelle antiche , corrispondeva alla volontà di dar vita a una solida base intellettuale su cui costruire il futuro. Il liceo classico era la struttura portante dell’ambizioso progetto, idoneo ad accompagnare i destini imperiali che sembravano annunciarsi. Tutti sappiamo come, di lì a poco, simili prospettive fossero spazzate via dalla catastrofe bellica, ma quel modello di scuola superò la sconfitta e la tragica fine del suo stesso ideatore, entrando a vele spiegate nel dopoguerra democristiano.
Questo tipo di scuola che conteneva, come tutte le cose umane, elementi positivi e negativi , scomparve a seguito della contestazione del 1968. L’esame di Stato uscito da quella rivoluzione non somigliava ormai in nulla al suo omologo istituito da Gentile : i tradizionali cinque scritti (Italiano, versione dal Latino all’Italiano e viceversa, idem per il Greco) ridotti a due, con la seconda prova comunicata con mesi di anticipo, in modo che lo studio delle altre discipline era di fatto abbandonato; due soli colloqui orali con programma circoscritto all’ultimo anno e, massima facilitazione, media generale fra tutte le materie, in modo che si poteva conseguire la licenza pur nella completa ignoranza di alcune di queste. I risultati furono subito evidenti: al posto dell’abituale 60% di respinti delle sessioni passate, dal 1969 si registrò il 95-97% di promossi.
Si trattò, in ultima analisi, di un progresso o di un regresso? E quali effetti provocò questo terremoto sul sistema scolastico e sull’intera società italiana? Ancora una volta gli aspetti negativi s’intersecano con quelli positivi. Senza dubbio, il nozionismo esasperato della scuola gentiliana non favoriva lo spirito critico degli studenti, ma tale non era il suo scopo. Si trattava, al contrario, di preparare le nuove generazioni a una obbedienza assoluta al sistema , dotandole peraltro delle conoscenze indispensabili per una buona riuscita nelle professioni e nel lavoro. Abbandonare totalmente questo modello per abbracciarne uno opposto, sull’onda del voto politico e delle okkupazioni , produsse in ogni caso autentici mostri, che pesano assai più oggi di 40 anni fa. Le nuove leve, alla prova, si sono rivelate un disastro. Non soltanto abbiamo avuto burocratici, pubblici amministratori, politici, magistrati e professionisti nettamente inferiori al loro compito, di frequente disonesti e pronti ad ogni compromesso per amore del denaro e della carriera; promuovere tutti ad occhi chiusi, secondo i dettami di un’ ideologia nichilista, ha infatti creato nei giovani l’illusione di una vita facile, ma quando poi si sono accorti che facile non era, hanno fatto di tutto per renderla tale tramite l’inganno e la furbizia.
Anche per questo la discussione sui mali della scuola, le cause e i possibili rimedi sono all’ordine del giorno: tutti si accorgono che così non si può andare avanti. Purtroppo, però, si cercano le origini del disagio, come sempre, nel luogo sbagliato. Si parla esclusivamente di risorse, seguendo l’andazzo materialista dei nostri tempi, mentre non si comprende che i problemi economici rappresentano l’effetto e non la causa della cattiva istruzione. Sarebbe certo utile e importante poter formare insegnanti meglio preparati degli attuali, ma non soltanto sul piano tecnico e nozionistico. A far difetto sono le motivazioni etiche e sociali, ossia la coscienza dell’altissima missione del docente, non importa di quale grado, che in altri tempi lo spingeva a sacrifici inenarrabili, come successe alla sorella di mia nonna , Paolina Tacchi, che licenziatasi alla prestigiosissima Scuola Normale Superiore di Pisa, una tra le prima cinque femmine a frequentare quella gloriosa Accademia, ai primi del Novecento fu trasferita dal Liceo Carlo Tenca di Milano alle Magistrali di Petralia Sottana, in Sicilia, destinazione oltremodo disagiata, per raggiungere la quale occorrevano più di 24 ore di viaggio, fra treno e diligenza.
Sarebbe però sbagliato attribuire la crisi d’identità dell’insegnate di oggi a motivi prevalentemente economici o alla mancanza di deontologia professionale. Essa si inscrive invece nella dissoluzione in atto di una società intera, che non possiede più punti di riferimento, non produce ormai da decenni una cultura degna di questo nome e naviga a vista, senza conoscere il porto di destino. Avendo in più occasioni indicato la rivoluzione partecipativa come rimedio al degrado del sistema, vale la pena abbozzare le caratteristiche di una scuola del tutto nuova, coerente con tale visione del mondo.
Innanzitutto la partecipazione diretta del popolo alle scelte che lo riguardano esige cittadini ben più consapevoli e dotati di spirito critico, di quanto richiedesse la democrazia delegata o, peggio, la dittatura. Per questo, l’istruzione pubblica non si può ridurre a un Centro Addestramento Reclute, vòlto alla formazione di una burocrazia supina e conformista. Ciò significa che fin dalle elementari, e per tutto il corso della carriera scolastica, dovrà affermarsi una responsabilizzazione costante dell’alunno, in modo da prepararlo alla presa autonoma delle decisioni, facendogli toccare con mano come ogni sua azione rappresenti la causa delle conseguenze di cui diverrà oggetto, in un costante feed-back (ma perché non chiamarlo all’italiana effetto di ritorno?) di azioni e reazioni.
Inoltre non lo si dovrà più considerare, anche se minorenne, un individuo privo della capacità d’ intendere e di volere, bensì un soggetto dotato di personalità unica e irripetibile , che in quanto tale non può essere omologata a nessuna forma precostituita di pensiero, sia pure a fin di bene. Le regole della scuola partecipativa dovranno quindi prefigurare quelle della società corrispondente: molte saranno perciò da cambiare. A parte gli organismi autogestiti che presiederanno alla sua organizzazione, composti in modo paritetico da professori e allievi, gli stessi giudizi sul rendimento scolastico si baseranno su principi molto diversi dagli attuali.
Stabilita una base minima di istruzione comune a tutti, fino alla licenza media, il percorso formativo ulteriore dovrà strutturarsi in base alle caratteristiche di ogni singolo allievo. Vi sarà quindi chi eccellerà in tutte le materie , e a questi verrà rilasciato un diploma polivalente, idoneo per l’iscrizione a qualunque facoltà universitaria e per la partecipazione a qualsiasi concorso. Altri, invece, saranno bravi nelle discipline scientifiche e insufficienti in quelle umanistiche, o viceversa: costoro riceveranno un diploma parziale, con l’autorizzazione a iscriversi solamente alle facoltà affini, e in calce allo stesso si preciserà il livello di preparazione nelle diverse materie, senza però interromperne il corso di studi o stroncarne le prospettive professionali. Infine, vi sarà qualcuno totalmente negato alla cultura , indipendentemente dagli indirizzi. Neppure questi verrà bocciato , termine autoritario e traumatico per la personalità dei giovani, ma lo si porrà di fronte alla scelta se contentarsi di un semplice attestato, con la raccomandazione di dedicarsi a lavori diversi da quelli intellettuali e il divieto a proseguire gli studi, ovvero ripetere la prova nella tornata successiva.
Ultimo avvertimento: al Consiglio scolastico che deciderà del suo destino, anche l’allievo dovrà prendere parte, illustrando le proprie ragioni e spiegando i motivi del proprio rendimento. L’insindacabilità dei docenti, in una scuola partecipativa, dovrà diventare un lontano ricordo.
Utopia? Forse, esattamente come la società di cui tale sistema didattico sarà l’espressione, ma soltanto riuscendo a realizzarlo potremmo davvero parlare di Buona Scuola. Tutto il resto appartiene alla demagogia, alla storia o semplicemente alle fanfaronate.
Carlo Vivaldi-Forti
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Da questo importante articolo, volendolo comunque impiegare per una libera riflessione ticinese, isolerei quattro considerazioni.
1) Il nozionismo esasperato dell'antica scuola (presente a suo tempo e per lunghi anni anche da noi) andrebbe riformato per renderlo intelligente e non esasperato. Infatti le nozioni non dovrebbero tanto servire per selezionare i cervelli come fossero bulloni riusciti o no nella catena di montaggio. Le nozioni sono il primo anello di conoscenza, dal quale partire per favorire l'apertura delle menti.
2) Gli attuali problemi economici sono effetto e non causa della cattiva istruzione. Quindi è perfettamente inutile rivendicare maggiori mezzi finanziari se non si vuole intervenire rendendo più gratificante e socialmente riconosciuto il lavoro del docente (che l'articolista chiama "altissima missione"). In altre parole, non è il docente che si limiti a rivendicare che migliorerà la scuola, ma quello che riuscirà a darle un valore e uno scopo degno per far presa sugli studenti.
3) La dissoluzione in atto di un'intera società è un rischio anche per noi. Quando non si conosce più il punto iniziale (dove è iniziata la cultura) è chiaro che viene soppresso il primo anello di una catena e perciò anche tutti gli altri verranno compromessi. Il destino diventa assolutamente ignoto e nulla potrà essere intrapreso per far fronte al degrado del sistema, che perderà ogni ordine e necessità di armonia, sino a ridursi al predominio di forze cieche e alla violenza dei singoli.
4) Trovo interessante il discorso sulle capacità differenziate degli allievi e sulla partecipazione responsabile di essi alla conduzione del loro iter personale. Ma è un discorso difficile da affrontare, finché perdurasse la volontà dirigistica di tutto pensare, organizzare e implementare.