Intervista a cura di Daniele Dell’Orco, pubblicata recentemente su Libero

Dal sito www.pietroichino.it

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Mi sono imbattuto per la prima volta nel nome del prof. Ichino alcuni anni fa. L’Associazione Società Civile voleva organizzare una giornata di studio sul Lavoro (che si tenne poi effettivamente all’Usi) e l’avvocato Tito Tettamanti manifestò l’intenzione di invitare come relatore (con altri) l’illustre giuslavorista. Per varie ragioni, purtroppo, l’obiettivo fu mancato ma un contatto con Ichino si stabilì. Ticinolive ha riproposto, negli anni, numerosi suoi articoli di grande interesse. (fdm)

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Con la solita pacatezza ma con l’emozione di chi si presenta in veste di autobiografo dopo una vita dedicata alla produzione di almeno una ventina di saggi sul mondo del lavoro, Pietro Ichino presenta al Salone del Libro di Torino “La casa nella pineta” (Giunti, pp. 416, euro 18). Un volume narrativo incentrato sulle vicende di una famiglia borghese del Novecento, la sua, all’interno della quale però “passa” il Paese reale.

Daniele dell’Orco  Professor Ichino, oggi invece il termine borghese è diventato quasi sinonimo di esilio volontario…

Lungo tutto il Novecento il termine “borghese” è stato molto usato in un’accezione negativa, per indicare la classe proprietaria dei mezzi di produzione, che si arricchisce sfruttando i lavoratori. In questo libro ho voluto mostrare anche l’accezione positiva di questo termine: una famiglia borghese che lungo tutto l’arco del secolo ha avuto molto viva la consapevolezza della propria responsabilità sociale, del dovere di porsi al servizio della società e in particolare della parte più debole di essa. Insomma, il “dovere di restituire”, cui don Milani poi ci ha richiamati in modo imperioso, in qualche misura è sempre stato presente nella cultura familiare; e questa è una caratteristica della “borghesia” nella sua accezione migliore.

Tra le tante cose lette su di lei mi ha colpito una sua riflessione: “Quando Pierino nasci, resti tale qualsiasi mestiere tu decida di fare”.

Un messaggio pedagogico che esorta ad essere coerenti con ciò che si è, quando invece la tendenza sembra essere quella di conformarsi a ciò che la società vorrebbe che fossi… Ho voluto dire che quando si riceve dalla propria famiglia il privilegio di una educazione e istruzione d’eccellenza, di quel privilegio non ci si spoglia più per il resto dei propri giorni. Proprio nei giorni scorsi uno dei primi allievi di don Milani, autore nel ’59 del tema su mia madre e su di me riportato in appendice al libro, in una lettera che ho pubblicato sul mio sito ha osservato che anche il priore di Barbiana aveva questo privilegio di nascita, e se lo è portato dietro per tutta la vita.

La storia della sua vita, come poi traspare dal libro, parla di un percorso, di scelte coerenti che poco o nulla hanno tenuto conto delle scorciatoie.

Attraverso la storia della vita dei miei genitori e mia ho voluto anche raccontare la storia di un secolo di cui alcuni partiti hanno provato sul serio a fare il secolo della palingenesi sociale, anche attraverso la “scorciatoia” rivoluzionaria; finendo però sempre col collassare a causa delle proprie contraddizioni interne. Se c’è una lezione che ne possiamo trarre è proprio quella dell’impossibilità delle scorciatoie: il cambiamento che serve, che fa star meglio i più deboli, richiede tanto tempo, fatica, intelligenza, pazienza.

La famosa ammonizione rivolta a lei e alla sua famiglia da Don Milani nel 1962, sul “dovere di restituire”, oggi la vede come indicazione di una scorciatoia o di una strada che porta davvero al risultato voluto?

La predicazione di don Milani si collocava essenzialmente sul piano etico, non su quello delle prescrizioni di politica economica. E sul piano etico, esistenziale, le scorciatoie non sono neppure immaginabili. Nel libro ho cercato di mostrare i tre percorsi esistenziali diversi attraverso i quali mia madre, mio padre e io ci siamo proposti di seguire quell’insegnamento.

La seconda parte del libro è probabilmente anche quella più intima, segnata tra le altre cose da quello scontro politico all’interno del suo stesso schieramento che portò alla sconfitta dei primi anni ’80…

Sì, c’è anche questo; ma il racconto è soprattutto l’intreccio tra le vicende delle nostre vite personali e i grandi eventi del secolo scorso: dai fatti di Ungheria del ’56 alla crisi di Suez, al Concilio Vaticano, al ’68, agli anni di piombo culminati nell’assassinio di Aldo Moro, fino alla clamorosa caduta del Muro dell’89. Una storia che nelle nostre scuole si insegna ancora pochissimo.

Qualche tempo fa hanno fatto discutere alcune sue prese di posizione riguardo l’art. 18. La domanda è: quale dovrebbe essere il ruolo del sindacato oggi?

Il sindacato oggi deve trasformarsi nell’intelligenza collettiva dei lavoratori, che consente loro innanzitutto di usare il mercato del lavoro – ciò per cui occorrono informazione e servizi –, ma anche di valutare i piani industriali e imparare a scommettere su quelli migliori. E anche di “ingaggiare” e portare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale, quella che può meglio valorizzare il lavoro degli italiani, anche e soprattutto dei più svantaggiati.

Sembra quasi destino che ci troviamo a parlare degli svantaggiati proprio oggi che l’ISTAT comunica che i poveri in Italia sono aumentati a 5 milioni…

Purtroppo sono ormai diversi anni che questa notizia ci arriva ogni giorno da tutti i media. Perché da tempo in tutti i Paesi sviluppati occidentali stanno aumentando le disuguaglianze, la distanza tra i più ricchi e i più poveri.

Solo in Occidente?

Dagli anni ’90 a oggi la globalizzazione ha ridotto notevolmente la povertà nel mondo: tre quarti dell’umanità hanno ridotto la loro distanza rispetto al quarto più ricco. È all’interno di quest’ultimo che le disuguaglianze stanno aumentando e si sono quindi allargate le zone di povertà.

Quand’è che la sinistra italiana ha tolto la “restituzione”, concetto trasmesso a lei da Don Milani, dalla sua proposta politica?

Ma, vede, la “restituzione” di cui parla don Milani non è una prescrizione di politica economica: è un comandamento etico. Sul piano politico, se si vuole raccogliere il consenso della maggioranza dei cittadini, ci si può spingere alla redistribuzione, che si fa soprattutto attraverso servizi pubblici efficienti, ma è cosa assai meno incisiva della “restituzione”. Vedo semmai un errore della sinistra italiana nella grave incapacità di migliorare il funzionamento dei servizi pubblici, essenziali per la redistribuzione e la sicurezza dei deboli; nell’essersi schierata con gli addetti ai servizi stessi invece che con gli utenti.

Dipende da questo errore della sinistra la sua scelta di non ricandidarsi alle scorse elezioni?

No. Se non mi sono ricandidato è solo perché non sono un politico professionista. Nel 2008 Veltroni mi chiese di andare in Parlamento per portare dentro il Pd il mio progetto di riforma del lavoro; da allora non solo quel progetto è stato fatto proprio dal partito, ma è stato anche in gran parte tradotto in legge. Con questo il mio compito di politico di complemento si è esaurito. Ora è bene che io torni a studiare, a fare il professore e l’opinionista.

Senza sinistra e senza un partito cattolico, a chi spetta il compito di rappresentare gli ultimi?

Non darei per morta la sinistra. Il punto è che oggi la scelta politica fondamentale è quella che riguarda l’integrazione dell’Italia in una nuova Unione Europea. Non solo perché soltanto con un governo continentale della sicurezza, della moneta, dei flussi migratori, dei grandi investimenti infrastrutturali, si possono creare le condizioni che consentono di far stare meglio gli ultimi; ma anche perché l’Europa è storicamente il luogo dove sono state inventate e implementate le misure più efficaci di protezione e sicurezza sociale; il luogo dove gli ultimi stanno meglio rispetto a qualsiasi altra parte del mondo.

Vuol dire che è di sinistra favorire l’integrazione europea e non fomentare la rabbia e la frustrazione contro i rischi della società aperta?

Sì. Non perché l’integrazione europea sia per sé “di sinistra”, ma perché non vedo alcuna possibilità di migliorare davvero le condizioni di chi sta peggio al di fuori di una “riforma europea” dell’Italia.

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