Perché il 23 settembre è importante votare no alla sperimentazione della Scuola che verrà (SCV)? È molto semplice: perché si tratta di un esperimento sulla pelle dei nostri ragazzi per il semplice diletto ideologico di Manuele Bertoli e dei suoi alti funzionari. Un esperimento che renderebbe infatti la scuola ticinese sempre meno svizzera, visto che tutti gli altri Cantoni si muovono verso una maggiore differenziazione dell’insegnamento.

Le vittime immediate di questi giochi di potere sono in primo luogo i docenti, che da autorevoli figure di un tempo (“ul sciur maestro”) diventano ormai sempre più degli esecutori della volontà ministeriale. Privati dell’autonomia che da sempre li motiva, li responsabilizza e permette loro di trasmettere il massimo all’allievo. Lo sappiamo bene tutti noi che abbiamo esperienze dirette di insegnamento e che abbiamo a cuore la nostra interazione con l’alunno. La SCV non è il frutto del lavoro proveniente dalla base, bensì un esperimento troppo complicato, una forzatura dirigista calata dall’alto. In queste settimane è sintomatica la manifesta paura dei docenti a metter fuori la faccia. Il lettore attento si sarà infatti accorto che gli unici docenti pubblicamente esposti sono quelli in pensione, liberi da eventuali ritorsioni dipartimentali. Non a caso questi per lo più criticano duramente la SCV.

Nel clima attuale viene in mente Konrad Adenauer, che nella Germania da rilanciare dopo la guerra diceva: “Keine Experimente!”. Anche qui non è il caso di dilettarsi con sperimentazioni farlocche. Sono parole forti? Il 12 marzo scorso, ho chiesto al Gran Consiglio di votare un emendamento al messaggio 7339 sulla SCV che obbligava il Consiglio di Stato a formulare un piano dettagliato su (1) come funzionasse la sperimentazione, (2) quale ente esterno al DECS la giudicasse, (3) come avvenisse il monitoraggio e il controllo della sperimentazione, (4) quali fossero i criteri di giudizio dell’esito della sperimentazione, (5) quali fossero le soglie di misurazione per giudicare se il modello dipartimentale (o le sue varianti) avesse raggiunto la sufficienza o meno, e (6) come venisse comunicata la reportistica in tempo reale durante la sperimentazione. Risultato del voto? Tiratissimo, con 41 contrari (compatti a testa bassa PS, Verdi e PLRT, fatto salvo Andrea Giudici), Nadia Ghisolfi astenuta, e 40 favorevoli (PPD, LEGA, UDC e Matteo Pronzini). La sperimentazione è farlocca perché ad oggi non vi è comunicazione formale che risponda in modo vincolante alle domande di cui sopra. In base ai non-risultati ottenuti, sarà possibile trovare mille scuse e mille distinguo. Proprio l’esatto contrario di come si organizza qualsiasi test che si chiede agli alunni di superare. Ma ancor più buffe sono le contraddizioni tra chi sul fronte del sì ribadisce la necessità di sperimentare e chi, Bertoli in primis, afferma candidamente che non si tratterà di una sperimentazione vera e propria, il che conferma la convinzione di noi referendisti che la “sperimentazione” della SCV vuole in realtà fare breccia per attuare la scuola dirigista di sinistra.

Il 31 marzo 2017, il PLR rispondeva negativamente alla consultazione sulla SCV citando Giuseppe Buffi: “L’insegnamento scolastico non può ignorare i contenuti competitivi della società. A un certo punto del suo cammino la scuola dovrà decidere chi far proseguire su una strada e chi su un’altra, distinguendo tra allievi ‘bravi’ (scolasticamente parlando) e allievi con attitudini e doti non meno importanti, non meno nobili, ma diverse, scolasticamente meno redditizie.” Poi chissà per quale alchimia quel partito, benché ricco di docenti, si è ricreduto di 180°. Noi crediamo invece che le parole del compianto Buffi siano sempre attuali e vadano considerate con attenzione. Se il 23 settembre le cittadine ed i cittadini ticinesi – comprese le e i docenti – nel segreto dell’urna vorranno stroncare sul nascere la SCV, sarà finalmente possibile approfondire per uno o due anni le questioni fin qui non evase. Tutti siamo concordi sulla necessità di mettere mano alla scuola ticinese (ha ragione Manuele Bertoli quando critica le intere legislature di inazione di chi l’ha preceduto), ma va raggiunto un vero consenso allargato con docenti, genitori, società civile e datori di lavoro. Serve un orientamento verso gli sbocchi post-obbligatori (e non una scuola dell’obbligo come un limbo a sé stante dove illudere l’alunno che il mondo giri dalla parte non vera), definire contenuti precisi anziché declamare generiche competenze sociali, semplificare i curricula, e implementare percorsi differenziati in terza e quarta media. Se a questo cantiere lavorasse in primo luogo chi ha esperienza diretta di insegnamento, certamente la cosa non guasterebbe e la riforma sarebbe più promettente.

Paolo Pamini
Istituto Liberale e granconsigliere UDC

(pubblicato come Opinione nel CdT)